Economia

La teoria della classe disagiata

25 Settembre 2017

Metà manifesto generazionale metà saggio accademico questo  volume  “Teoria della classe disagiata” di Raffaele Alberto Ventura  uscito pochi giorni fa si offre volentieri alla lettura anche a seguito di una certa eco avuta in Rete, che oramai sempre più si presta a cassa di risonanza  non solo dei webeti  ma, per fortuna,  anche di chi ha qualcosa di intelligente da dire.

Di cosa si tratta? Innanzitutto occorre intendersi su quel “teoria” che apre il titolo. Non si dovrà interpretare  tale termine, impegnativo in altri ambiti, come un qualcosa di scientifico (nel senso delle scienze dure) ma sottintendere piuttosto la sfumatura che esso  ha assunto,  in area semantica e filosofica tedesca,  nella locuzione per esempio di  “Teoria critica” dei francofortesi. Un termine questo molto assimilabile, sempre in tale ambiente argomentativo, a “dialettica” (“Dialettica” dell’illuminismo),  ossia:  modalità di funzionamento descritta in modo particolareggiato e “critico” da un lato  e dall’altro trattazione colta, esposizione articolata, disamina dettagliata,  di un certo fenomeno sociale, culturale, economico, filosofico ecc.

“La classe disagiata” è clonata invece sul testo famoso del sociologo  Thorstein Veblen  autore del celebre “Teoria della classe agiata” (“The Theory of leisure class”, 1899) il quale aveva sottolineato nell’America a cavallo tra Otto e Novecento  l’emergere di questa classe fortunata che si contraddistingueva dalle altre classi sociali  in virtù della propria capacità reddituale di ostentare un  consumo vistoso  (conspicuous consumption era il termine originale).

E invece cosa consumano i “disagiati”? Beni vistosi anch’essi , o “posizionali”, come  li definisce Ventura, specie  nel campo del sapere, ma non avendo essi  la capacità di ricavarne un reddito stabile in accordo con le necessità, gli imperativi, l’onere e i divieti  della  “società affluente” in cui sono immersi.   I soggetti di questa classe sono provenienti a loro volta da una condizione familiare di partenza  «troppo ricca per rinunciare alle proprie aspirazioni, ma troppo povera per poterle realizzare». Perlopiù  giovani (con tutte le estensioni semantiche cui tale condizioni biologica viene sottoposta nella nostra epoca),  i disagiati si pascono di cultura alta cercando o sperando di procurarsi con essa un reddito all’altezza della loro anima, di vendere al minuto ciò che hanno acquistato all’ingrosso nei Lernen Jahre per dirla con il Goethe del “Meister”, negli anni di lungo e sovradimensionato noviziato culturale (dottorati, borse di studio in Italia e all’estero, specializzazioni luccicanti, master, titoli che si assommano vistosamente fino al punto che qualche  interessato, di fronte al baratro del fallimento, non sbotti, come un mio amico  napoletano, in un  “levatemi l’eccellenza e aumentatemi  la settimana”).  In tutti questi giovani aggiunge Ventura «si produce quello sfasamento tra l’identità sociale percepita e le risorse disponibili che caratterizza la classe disagiata».

Se il borghese bohémien di qualche decennio fa poteva giocherellare con la propria condizione agiata e cavare  da essa uno sventato artista, il giovane artista o intellettuale dispendioso di Ventura,  “precario” nell’intimo e nell’incastro sociale, tenta invece di trarre dai propri  dispendiosi investimenti  intellettuali e artistici  il reddito del borghese.  Gioco che non riesce (più) se è mai riuscito in passato,  perché nella società attuale, essendo l’offerta di questi sibaritici tipi umani  di gran lunga preponderante sulla domanda (un milione di glottologi sarebbero un flagello per qualsiasi società),  non c’è posto per tutti, e uno su mille ce la fa in quella speciale lotteria della fortuna sociale. Da qui il “dramma borghese” di questa classe che, per dirla in termini nostri,  sembra composta sempre più da  soggetti  con la paga di un soldato e l’anima di un generale.  Spostati o infelici, disforici per il declassamento o addirittura permanentemente depressi, cadono tuttavia sul morbido, perché accolti nella caduta da una rete familiare che consente loro di consumare il patrimonio in mancanza o in attesa  (campa cavallo) di un reddito . Impossibilitati a progredire e tutto sommato  al riparo di una umiliante regressione sociale (lo spettro del  lavoro manuale) si consumano nello stallo di un eterno presente mentre i beni al sole familiari si bruciano nel consumo  dell’autocombustione da sostentamento,   in attesa di un futuro che si nega.

Fornito di sguardo  acuto e di una prosa voluttuaria “alto di gamma” anch’essa, ove si alternano scavo di concetti economici e fantasmagorie letterarie  (vengono tirati dal cielo dell’alta cultura  non pochi “santi”, dagli economisti classici ai letterati di pregio in un’accattivante prosa saggistica) Ventura porta al banco della sua coltissima disamina una messe ricchissima di osservazioni e offre diversi punti di vista e  iridescenze  da ologramma, elementi in cui risiede il fascino della sua operazione di rischiaramento intellettuale. Ci fornisce occhiali ipermetri talvolta.  La  straordinaria e stordente efflorescenza di richiami raffinati fa  perdere in certi momenti la nitidezza delle linee portanti del quadro analitico sotto esame.

A proposito  di focalizzazione, non mi è chiaro, a lettura ultimata, se questa classe disagiata sia tutta inscritta nel nostro  tempo e solo nel perimetro  del nostro Paese,  o se è fenomeno universale e di tempi più larghi rispetto a quelli qui in ricognizione.  Se assumiamo che de nobis fabula narratur occorrerà subito precisare che storica è la debolezza strutturale (ove più ove meno ma  nel suo insieme) delle forze produttive nel nostro Paese. Per quel che riguarda poi  il grembo natale  della classe disagiata, ossia la piccola e media borghesia, quella “quasi classe” che sta in mezzo tra il capitale e  il lavoro salariato e che la dicotomizzazione marxista prevedeva in estinzione,   la memoria del lettore va alle grandi ricognizioni fattene da Luigi Salvatorelli, Antonio Gramsci e Gaetano Salvemini, che come noto, sboccano in analisi spietate e ormai più che verificate dal punto di vista storiografico (De Felice, Vivarelli) e che condussero alla spiegazione dell’insorgere del  fascismo, quale “invenzione”  politica della piccola borghesia.

Più in generale, se si apre qualche pagina di Salvemini troviamo collimanti giudizi e quasi lo stesso frasario di Ventura.  Scriveva Salvemini della piccola borghesia meridionale: «Una classe che non è né così ricca da poter vivere di rendita, né così povera da accettare spontanea quella che essa giudica degradazione del lavoro manuale. In siffatte condizioni, tutte le famiglie della media e della piccola possidenza sono portate ad avviare i loro figli quasi esclusivamente verso le professioni liberali e gli impieghi. D’altra parte lo Stato, invece di tener basso il numero delle scuole classiche per impedire nei limiti del possibile la sovrapproduzione dei laureati, dei diplomati e dei… bocciati, non ha saputo finora fare altro, se non secondare supinamente le pressioni delle famiglie; ed ha moltiplicati nel Mezzogiorno stoltamente i ginnasi… ».   Era un articolo del marzo 1911…

Nella pagina salveminiana si deplorava  l’eccesso di istruzione classicista presso i giovani meridionali, a differenza dei settentrionali “ferrati di realtà” (in Lombardia 3.010 ginnasiali su 4,5 milioni di abitanti; in Sicilia 5.591 ginnasiali su 3,5 milioni),  e su questo scenario  il feroce Salvemini incalzava: « In otto anni di classicismo bastardo e scimunito, quale può essere insegnato da maestri di quella forza, e in quattro anni o cinque anni di studi universitari, che specialmente per la facoltà di legge meriterebbero la denominazione alfieriana di non-studi; la classe cosiddetta intellettuale del Mezzogiorno vien su in una ignoranza mostruosa e crassa, in una assoluta incapacità di costruirsi con le sue iniziative personali, attraverso la vita, una seria cultura».

Nell’analisi di Ventura sembra che il “modello Salvemini” che nello studioso pugliese era tarato sulla realtà meridionale si sia esteso a tutto lo Stivale anche se il tono  di Ventura è reso meno aggressivo per via dalla consonanza generazionale. Rottisi tutti gli ascensori sociali (semmai abbiano funzionato in Italia)  i giovani precari italiani sono ridotti alle condizioni  sociali grottesche dei vecchi Cecé e Sasà meridionali di inizio Novecento: vivacchiano nutrendosi di sogni in attesa di qualche sbocco sociale che immancabilmente, ma solo per  i più fortunati, potrà arrivare  dal “capitalismo di relazione”, che può essere o il “ciònamico” romanesco  o la solita “spinta” del vecchio genitor.

Di recente un giovane coetaneo di Ventura, Emanuele Ferragina (se Ventura lavora presso una grande casa editrice francese, Ferragina insegna in una grande università inglese) nel suo volume “La maggioranza invisibile” (Rizzoli, 2014) delinea un quadro non dissimile ma allarga la categoria dei disagiati all’interno di un più ampio  “gruppo sociale svantaggiato” composto da disoccupati, neet (not in education , employment, or training), pensionati meno abbienti, migranti a cui aggiunge  i “precari” di cui discorre Ventura,  gruppo che, sommando tutte queste sottoclassi a suo parere ammonterebbe a ben 25 milioni di individui.

Le analisi di Ventura e di Ferragina a me hanno ricordato scenari  “diciannovisti”, di latente ed esplosivo malessere sociale, simili a quelli che nel ’19-’22 (il quadriennio studiato da Pietro Nenni) sfociarono nella crisi dello stato liberale e in seguito, anche in virtù di  detonatori specifici quali la crisi del dopoguerra e la particolare  “assenza di senso politico  del partito socialista” (Nenni),  favorirono l’ascesa del  fascismo. Ma la massa di manovra del movimento sociale che portò all’avvento del regime fu un esercito di disoccupati, sottoccupati, inoccupati, “preoccupati”.

Ventura in verità non fa di queste proiezioni di tipo politico, e peraltro non si addentra più di tanto in terreni accidentati quali  le indicazioni di possibili soluzioni a questo stato di cose. Benché, per esempio, non approvi l’assunto spesso brandito  acriticamente da molti della correlazione diretta tra tasso di istruzione e sviluppo economico, afferma piuttosto il contrario: che  l’iperistruzione e l’iperformazione sono effetto imprevisto e alla lunga indesiderato e forse nocivo dello sviluppo economico. Pertanto le proposte provocatorie di descolarizzazione della società alla  Ivan Illich sono semplicemente indicate come elementi dello scenario generale, ma non sposate come drastico e “salveminiano” rimedio. Certo in Italia è mancata ogni programmazione che mettesse in relazione le necessità produttive con i piani di studio e le predilezioni individuali (di quanti filologi romanzi abbiamo bisogno?) e s’è preferito lasciare tutto alla scelta libera dei soggetti,  i quali a compimento del proprio ciclo di studi si sono accorti, forse troppo tardi, di essere giunti nudi alla meta.

Merito del lavoro di Ventura è quello di aver visto un incendio sociale e di averci segnalato le fiamme con lucida intelligenza critica e con una prosa conseguentemente… flamboyante, visto che l’autore lavora a Parigi.

Raffaele Alberto Ventura, Teoria della classe disagiata, Minimumfax, Roma 2017, pp 262, € 16,00.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Commenti

Devi fare login per commentare

Accedi

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.