Teatro

Trainspotting e quel “fottuto” teatro inglese

26 Gennaio 2017

Ora io vorrei riflettere sull’uso e l’abuso del termine “fottuto”. Non ve ne abbiate, non è questione da Accademia della Crusca, quanto piuttosto domanda che nasce anche a teatro. Come si sa, il termine, con tutti i suoi derivati, è di chiara matrice americana: un made in USA, un marchio di fabbrica soprattutto di tanto cinema. Nota è l’origine, ossia quel termine molto in voga negli Stati Uniti che non sto qui a ripetere, da cui deriva la traduzione italiana. Insomma, “fottuto” è parola da doppiaggio e da doppiatori di film americani, che come sempre si inventano soluzioni per restituire il labiale dei beniamini del piccolo e grande schermo.

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Per me, che sono vecchietto, il termine è quasi un neologismo: non è, insomma, una parola o un suono che entri nel colloquiale, sostituito e sostituibile com’è da un florilegio di termini, espressioni, immagini e metafore di cui noi italiani siamo maestri. Pur restando vivo nella memoria il celebre “San Gennà, futtetenne!” che apparve sui muri di Napoli quando si diceva che il patrono sarebbe stato declassato dal gotha dei santi, mi pare che la parola sia in crescente adozione specie in tempi recenti. Complice lo strapotere tv, insomma, il “fottuto” è diventato di moda, lo si usa e risuona anche nel teatro, specie quando si ha a che fare con certa drammaturgia inglese o americana ipercontemporanea. Al punto che, mi viene da dire, basta ascoltare un frammento, un passaggio, una scena per capire anche ad occhi chiusi se quegli attori stiano o meno recitando un pezzo di drammaturgia anglosassone contemporanea.

Come è noto, i cosiddetti “nuovi arrabbiati”, la generazione di drammaturghi inglesi definita – in modo un po’ grossolano – autori in yer face (ossia quelli che ti sputano in faccia la verità), ovvero Ravenhill, Crave, Crimp e altri, hanno avuto dei meriti indiscutibili: hanno riportato al centro del teatro anni Novanta l’attenzione per la parola, per il disagio giovanile, per la marginalità. Ma quella sorta di neo-realismo del Tamigi si complica una volta portato sul Tevere (o sull’Arno o sul Po). E a me, che sono e lo ripeto vecchietto, quel linguaggio tradotto in italiano spesso mi stona, suona un po’ vuoto, e il “fottuto” che torna sempre è una piccola forzatura in codici espressivi che invece sono, o vogliono essere, assolutamente immediati, bassi, aderenti a una volgarità – finanche blasfema – di grande realtà.

Allora, mentre ascoltavo la divertente e vivace trasposizione di Trainspotting, portato in scena con mano disinvolta e disincantata da un bravo regista come Sandro Mabellini, mi chiedevo che lingua parlassero quei personaggi, dropout di una Edimburgo raccontata nel romanzo di Irvine Welsh, e adattata per il teatro prima in francese dal libanese-quebecchese Wajdi Mouawad e poi tradotto in italiano da Emanuele Aldrovandi.

La versione scenica, infatti, è un racconto aspro, intenso, divertente e a tratti travolgente, giocata su codici sicuramente volgari, smaccatamente espliciti in cui il turpiloquio si muta spesso in vertigine creativa. Si intrecciano storie di ordinaria tossicodipendenza, vicende umane – sentimentali, lavorative, relazionali – di personaggi di periferia, che sono sbandati più per scelta che non per destino. Gioventù “difficile”, si direbbe oggi, che ha rifiutato il perbenismo e la routine sociale, che volta le spalle alle convenzioni e ai doveri, ma al tempo stesso è vittima di se stessa e dei meccanismi senza scampo della droga.

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Tema non facile da trattare, quello della dipendenza da eroina, con tutto il suo corollario di riti, di miti, di riferimento. Ne abbiamo recentemente visto un parallelo racconto, molto ben creato da Oscar De Summa con Stasera sono in vena, che non a caso ha impregnato la storia della matrice pugliese, anche dialettale.

Perché il problema, allora, è ancora quel “fottuto”, ossia proprio il “gergo”, la dinamica tra basso e alto eloquio, tra lingua ufficiale e slang marginale. Da noi, spesso, si risolve impropriamente la traduzione attingendo a lingue o dialetti, a cadenze da periferia di Roma o Milano, ma non basta.

Mabellini e Aldrovandi, in scia di Mouawad, hanno giustamente scelto – rischiando –  la strada difficile di tenere una lingua potenzialmente ‘alta’, seppur infarcita come detto di colorite volgarità. E se pure qualcosa risuona da doppiaggio tv, da fiction di serie di successo, compensano il problema generale i generosi interpreti, a partire dal trio maschile che si divide anche in ruoli diversi. Michele Di Giacomo, che si assume anche l’onere di farsi narratore delle vicende vissute, trasportandole in una sorta di epica pop; Riccardo Festa, ottimo nel connotare i sui ‘fattoni’ e dare corposità a tutto lo spettacolo; infine il brillante e nerboruto Marco Bellocchio, che dà smalto e ritmo al trio con esiti esilaranti anche en travesti. Un po’ a disagio ci è parsa, in questa vicenda decisamente maschilista e misogina, la pur brava ed elegante Valentina Cardinali: drammaturgicamente (e anche registicamente) troppo ai margini per tenere il confronto con tanta devastata ‘virilità’.

Si ride, di fronte a queste squassate vicende, pensando forse non ci riguardino più di tanto: invece, a guardar bene, la provincia italiana, quella brutta bestia fatta di noia e depressioni, di inutilità e frustrazioni, di violenze e sofferenze, non è poi così lontana da quella scozzese dei passati anni 90. Magari si diranno meno “fottuti”, ma male si sta male.

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Anche per questo, nella vivacissima factory di Carrozzerie Not, a Roma, di fronte a un pubblico giovane e numerosissimo, Trainspotting ha raccolto lunghi e convinti applausi

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