Teatro
Short Theatre o della Comunità senza futuro
«Siamo sinceri, noi non abbiamo alcun teatro, così come non abbiamo un dio: per averli occorre essere comunità» scriveva Rilke. E Furio Jesi, traducendo I quaderni di Malte Laurids Brigge, insiste sul fatto che Gemeinsamkeit sta per “comunità”, ma anche per “comunanza”, ovvero solidarietà di esistenza.
L’aspetto che colpisce di più, al di là del fitto cartellone, nel Festival Short Theatre di Roma in corso in questi giorni, è ancora di nuovo il senso di “comunità”, di ritrovo comune, di appuntamento condiviso da una specie umana.
Lo ripetiamo tutti gli anni, perché edizione dopo edizione – e quest’anno si festeggia la decima – la manifestazione romana è un appuntamento in cui si ritrova una “certa” comunità teatrale. Il direttore artistico, Fabrizio Arcuri, regista e organizzatore, ha dato come titolo “Nostalgia di Futuro”, che suona forse come struggente e amara consapevolezza che “il futuro non è più quello di una volta”. Una generazione, una “classe” – in clima di riapertura delle scuole – si incontra dunque negli spazi della Pelanda al Mattatoio o al teatro India, consacrando se stessa, in un presente vitalistico cui manca, però, o è stata sottratta, la prospettiva di un futuro possibile.
È una resa? Oppure crescerà questa comunità? O ancora continuerà a far “comunanza” solo con se stessa?
Segnali di futuro possibile non mancano: alcuni artisti presenti in cartellone hanno mostrato indubbie capacità, che li han portati ad esibirsi di fronte a pubblici diversi, in teatri di mezza Europa.
Ma per il resto – e forse per la maggioranza di questa minoranza – si avverte sempre la frustrante sensazione che la suddetta comunità faccia comunanza solo con se stessa, ovvero con i propri simili.
Di fatto, negli spazi della Pelanda, ci conoscevamo tutti, in una prossimità tra scena e platea che ha dell’incestuoso. Attori che applaudono attori che si esibiscono e che poi tornano in platea.
È uno scoglio da non sottovalutare, questo: soprattutto per agguantarlo, quel futuro del titolo, e non averne più nostalgia. L’autoreferenzialità rischia di diventare stucchevole e chi non è “dell’ambiente” corre il pericolo di sentirsi malamente “escluso” da artisti che addirittura citano se stessi in spettacoli sempre più per addetti ai lavori.
È il caso, ad esempio, di Danio Manfredini. Artista eccellentissimo, considerato da molti, anche giustamente, un Maestro, che quando è in forma potrebbe pareggiare Kazuo Ohno per essenzialità e poeticità, ma che abbiamo visto in un lavoro troppo piccolo. Una sorta di montaggio di “arie famose” (da Thomas Bernhard, che fa sempre effetto, passando per l’Essere o non essere, a pezzi originali) dal titolo Vocazione, che risulta davvero troppo stanco: ride chi sa, sentendo l’ennesima tirata sul teatro che è una “prigione”, ma la “condanna” bernhardiana, sottratta alle sue nevrosi intellettuali, perde di profondità. Si può dire? Manfredini ha firmato capolavori: è un peccato che si presenti con lavori non alla sua altezza.
Non supera l’abbecedario teatrale minimo il compiaciuto My Personal Taranto della pur giovane Isabella Mongelli, che vorrebbe essere surreale denuncia sociale della condizione umana nella città pugliese afflitta dall’Ilva, ma che si rivela un irrisolto, noioso e presuntuosetto giochino quasi amatoriale. Eppure quel “tipo” di messa in scena, quel dialetto, quel giocare la carta “impegnata” viene premiato addirittura da un progetto di sostegno internazionale.
Michele Di Stefano, ormai giustamente star affermata della coreografia contemporanea, riprende E-INK, spettacolo del 1999 con Biagio Caravano. Non nego di aver un problema irrisolto di comprensione di quella fluidità di movimento e dell’ironia della compagnia MK: non l’avevo capito allora e non l’ho capito nemmeno oggi, pur nella conclamata ed evidente qualità di percorso dei due danzatori.
Ha il sapore di una cupa stand-up comedy O della nostalgia, di e con Matteo Angius e Riccardo Festa, nuovo duo che promette interessanti sviluppi scenici, bravi e belli come sono. Imbastendo una sorta di programma radiofonico, i due corrono sul filo di un tema non facile – quello della nostalgia, appunto – allestendo un cabaret che si costruisce per numeri (troppi: una bella sfrondata farebbe bene al lavoro) dal clima emotivo diverso, con spunti notevoli che però, almeno al debutto, sono pigramente trattenuti e non vanno sin dove potrebbero. Al lavoro, infatti, non guasterebbe essere ancora più caustico e doloroso, far male e far riflettere, e invece i due interpreti rischiano di perdersi in trovatine poco funzionali o in prevedibili memorabilia alla Fabio Fazio. È difficile tenere quel sottile equilibrio tra “intrattenimento” ironico e abissi dell’umor nero, ma l’idea è interessante, il potenziale c’è, la qualità pure, e qualcosa ne verrà fuori.
Nella due giorni in cui ho seguito Short Theatre ho visto anche i Motus, come sempre invidiabili per la capacità di cogliere (o innescare) le tendenze del contemporaneo. Con l’atteso e già idolatrato MDLSX si innestano a pieno titolo in quel filone, tutto europeo, che fa della scena il luogo della “confessione personale intima”, lo spazio in cui – microfono alla mano – il performer discute di identità, di sessualità, di sogni, frustrazioni e aspirazioni. All’ultima Biennale Teatro, ad esempio, avevamo visto esempi di questa tendenza in atto con Falk Richter, Fabrice Murgia, persino con Jan Lauwers: autobiografismo che assurge a drammaturgia, quasi senza mediazioni. Motus, dunque, complice la prorompente presenza di Silva Calderoni, gioca con gli stilemi del genere, evoca il romanzo di Jeffrey Eugenides, allestendo un live djset in cui la performer-narratrice mette in campo video personali dell’infanzia e della giovinezza, in una confessione che si muta in testimonianza e rivendicazione. Una playlist di 21 brani, un continuo ballare, spogliarsi, rivestirsi, gridare, sbattersi, strisciare, mescolando Judith Butler, Paul Preciado al privato coming out: MDLSX è un lavoro senza dubbio importante, perché affronta di petto il tema della identità sessuale, ma il rischio – almeno a me pare – è che si cerchi di superare il cliché, lo stereotipo, rivendicando o cadendo in un altro cliché, ovvero un altro stereotipo. Ognuno è libero di esser se stesso, di amar chi vuole e come vuole: non starei a beatificare l’una o l’altra scelta. Se poi l’ermafroditismo deve assurgere a sinonimo di assoluta santità nella unicità e diversità, il discorso rischia – paradossalmente – di mutarsi in impositivo.
A Short Theatre ho visto anche Roberto Castello con la sua compagnia Aldes e She She Pop, ma questi ve li racconto un’altra volta.
Resta il dubbio di Rainer Maria Rilke, quell’interrogarsi sulla comunità e sulla comunanza. Evidentemente il Festival di Arcuri risponde a un bisogno, dà un riferimento ad una parte dell’ambiente teatrale (romano, soprattutto, ma non solo). Raduna una minoranza attiva e combattiva che ha bisogno di ri-conoscersi nel teatro che fa, forte – anche – di un accompagnamento critico davvero notevole. Ma questo avere “un solo teatro”, ossia “un solo dio”, per parafrasare il poeta, diventa un gioco “ad excludendum”: pare quasi che la comunità si crei in chiusura, nella condivisione di estetiche e riferimenti propri, e che solo chi abbraccia quelle regole possa entrarvi. Aprirsi: forse è questa la sfida per i prossimi dieci anni di Short Theatre. Altrimenti, se anche la “ricerca” deve codificarsi solo in modo così vincolante, rischia di perdere la ragione del proprio essere.
Noi, al monoteismo, preferiamo ancora il paganesimo: tante e diverse divinità in un animato e vivace monte Olimpo.
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