Scenario, Inbox, Teatri del Sacro e quei Trecento giovani e forti…
Nel volgere di pochi giorni sono apparse tre notizie che, almeno per chi si occupa di teatro, hanno del sorprendente e del preoccupante. Cominciamo dal dato sorprendente: simili notizie sono testimonianza di una grande e vitale voglia di fare teatro, di un entusiasmo condiviso, di una creatività diffusa in tutto il territorio nazionale.
Si è saputo, infatti, che meritorie e meritevoli iniziative di promozione del nuovo e del giovane teatro sono state letteralmente subissate da domande di partecipazione.
Evviva! Se ce ne fosse ulteriore bisogno, possiamo dire senza tema di smentita che il teatro italiano continua a sfornare talenti. E il merito va ascritto, anche ma non solo, a queste manifestazioni che si assumono l’onere e l’onore della promozione del giovane teatro.
A cominciare dallo storico Premio Scenario, l’iniziativa di respiro nazionale che si confronta, incoraggia e sostiene nuovi progetti scenici. Sul sito del Premio si legge tra l’altro, che nelle passate quindici edizioni, l’Associazione Scenario (scandalosamente escluso dai finanziamenti pubblici) ha vagliato circa 2850 progetti, dei quali più di 750 sono stati presentati pubblicamente durante le varie tappe e circa 180 sono stati i progetti finalisti. Bene, per questa edizione, che celebra il trentennale, il Premio – da sempre attento ai linguaggi del contemporaneo, all’impegno civile e al giovane pubblico – ha ricevuto circa 150 progetti di gruppi nuovi e nuovissimi. Di questi, procedendo per selezioni successive, una cinquantina andranno in finale. La procedura prevede uno “studio” di venti minuti e poi, per tappe, arrivare allo spettacolo completo, che normalmente non supera l’ora di durata.
L’altro fronte iperattivo è quello del Premio Inbox, promosso dalla vivacissima compagnia Straligut Teatro. Altra rete di strutture a coprire tutta Italia, fase finale prevista a maggio a Siena, Inbox è un premio non per “progetti” ma per spettacoli belli e fatti. Ebbene, l’edizione di quest’anno ha visto una richiesta di partecipazione decisamente massiccia: ben 341 domande arrivate per la sezione “maggiore” e al momento oltre 80 (ma sono stimate 130) per la sezione “verde” ossia quella dedicata al teatro ragazzi.
Infine, i Teatri del Sacro, la rassegna di impianto cattolico che si sta imponendo velocemente, dedicata alla spiritualità e alla tradizione religiosa: per accedere alla fase finale (che sarà ad Ascoli Piceno a giugno) sono state scelte 70 compagnie selezionate tra le oltre 250 domande ricevute.
Fatti i complimenti ai rispettivi organizzatori, capaci di catalizzare tante attenzioni e di far vivere iniziative meritevoli, restano aperte delle domande.
Ed ecco la parte preoccupante.
Ci troviamo di fronte, infatti, a un mondo: giovane ed entusiasta, ma non solo. A scorrere i nomi dei gruppi che si propongono a Inbox, ad esempio, si notano realtà già ben conosciute: per citare solo alcuni, la Piccola Compagnia Dammacco, ErosAnteros, Oyes, Evoè, IsMascareddas, Teatro delle Bambole, Daniele Nuccetelli, Progetto URT, Caterina Paolinelli, Gommalacca teatro, AmorVacui, Carullo-Minasi, Aia Taumastica, InternoEnki, Taverna Est, Ersilia Lombardo, Sandro Mabellini, Il Mulino di Amleto, Piccola compagnia della Magnolia, Akroama…
Per i Teatri del Sacro hanno parteciperanno (tra quelli che hanno passato il primo turno) anche La Corte Ospitale, Quotidiana.com, Accademia Amiata Mutamenti, Abbondanza/Bertoni, Maniaci/D’Amore, Le Nuvole, Le Belle Bandiere, Guinea Pigs, TamTeatromusica, Capotrave, Teatro Minimo, ArcaAzzurra, Compagnia Dionisi…
E gli altri? Gli altri trecento? Sono tanti, tantissimi. Per me sconosciuti o quasi. Ci troviamo di fronte a un’offerta di teatro che sicuramente supera la capacità di assorbimento del nostro “mercato”.
Che faranno? Se anche i “maggiori” hanno difficoltà di produzione e circuitazione, questi giovani come saranno accolti sulla scena nazionale?
Provando a rispondere a simili domande, allora, non si può non notare che la questione sia piuttosto ingarbugliata. Certo il “talento” fornirà la necessaria e naturale selezione. Ma vale la pena chiedersi anche perché questi premi – in un certo modo come i famigerati “bandi” (sui bandi come strumento di controllo e addirittura di censura vorrei tornare in modo più diffuso in un altro momento) – siano diventati praticamente l’unica via possibile rimasta per andare in scena, ossia per lavorare. (E per fortuna che ci sono, viene da dire!)
Al tempo stesso, dunque, non posso non pensare che tante “istituzioni”, sicuramente più foraggiate e per statuto anche destinate a incoraggiare i nuovi linguaggi e il ricambio generazionale, non si attivino a sufficienza. Insomma: tanti teatroni pubblici sono più solerti nello sbattere in faccia le porte ai giovani, piuttosto che aprirle. Ovviamente, non mancano eccezioni, ma il trend mi pare sia questo.
In secondo luogo, non saranno sfuggiti agli occhi più attenti, quei nomi citati, di artisti importanti, dalla lunga storia, che sono in qualche modo costretti a entrare nella ‘lotteria’ dei premi.
Questo fa ipotizzare che ci siano delle storture belle e buone nel sistema: se registi o attori quaranta-cinquantenni, la cui proposta è innegabilmente e storicamente di qualità, sono costretti a mettersi in competizione con dei ventenni vuol dire che qualcosa non va. Sbaglio? Forse: non si può negare il diritto alla competizione anche a chi già gode di finanziamenti o di percorsi blasonati. Resta il fatto, però, che tutti gli ‘altri’, ossia i giovani, si trovino in contest contro concorrenti che appartengono, innegabilmente, a un’altra categoria.
Questi giovani teatranti, insomma, non se la passano molto bene.
Facciamo il caso di Roma: le tante scuole attive sfornano a getto continuo nuovi attori, che si ingegnano pur di far qualcosa, in autoproduzioni, ossia a fare spettacoli per cui non solo non guadagnano, ma devono spendere. Pagare la sala prove (che costa caro), trovare e pagare i tecnici (se non sono amici), magari anche affittare la sala per il debutto, pagarsi la promozione per smuovere qualcuno oltre parenti e amici. Non dico nulla di nuovo: è la realtà che tutti i teatranti conoscono bene.
Insomma, non resta la strada del premio: passare le selezioni, vincere e magari “circuitare” un po’ grazie al premio, nella speranza di essere visti. E se pure si vince, il passo successivo è ancora più difficile: poi dove si va a sbattere la testa?
Non c’è, mi pare chiaro, se non ridotto al minimo, un dialogo tra i vari livelli delle strutture pubbliche: i teatri nazionali o i tric (anche qui, con le dovute eccezioni) raramente rischiano o scommettono accogliendo in cartellone queste giovani realtà. Allora la situazione diventa sempre più disperante: ogni anno due o trecento nuove formazioni si affacciano al mondo del teatro italiano. Premono alle porte di quei sepolcri imbiancati che sono i teatroni pubblici, spingono e sgomitano, ma non sono accolti, se non raramente ed episodicamente, magari nelle sale B. L’alternativa è stata, ed è, di creare circuiti paralleli, diversi, per dare parziale compensazione a tale feroce voglia di fare teatro.
Come fece Dario Fo con l’Arci negli anni Settanta, si inventano spazi diversi, magari centri sociali (prima che siano sgomberati) o nuove “cantine”. Ma tali circuiti, per quanto pregevoli, non bastano e relegano a un’eterna marginalità fatta spesso di sporadiche repliche sottopagate. Ci troviamo di fronte a spettacoli sempre più striminziti, stringati, forzatamente ridotti all’osso: monologhini, lavorini che durano pochissimo, sempre più fragili per struttura e respiro. Addirittura preventivamente auto-censurati: se è difficile rischiare creativamente e produttivamente, naturalmente si cercherà di fare la cosa meno “contestabile” possibile.
Come se ne esce? Che ne vogliamo fare di tanta creatività?
(Nella foto di copertina: Gabriele Paolocà in AmletoFx, Compagnia VicoQuartoMazzini, vincitore del premio Inbox 2015)
Un commento
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.
Se i teatri fossero frequentati da molte persone, e se le persone fossero abituate a frequentare uno o più teatri a prescindere dal singolo spettacolo, perché si fidano e perché restano soddisfatti, allora ci sarebbe spazio per tutti, o almeno per tutti quelli che se lo meritano.
Purtroppo i grandi teatri scelgono gli spettacoli in base alle conoscenze personali, oppure in base alla sicurezza di incasso. La maggior parte dei piccoli teatri e delle cosiddette “nuove cantine” si basano su amici, parenti ed eventuali allievi delle singole compagnie.
La giovane compagnia che esce dalla propria città deve per forza avere un titolo di grande richiamo, altrimenti non ce la può fare.
Alcuni teatri lavorano molto bene: riescono ad affiliare un proprio pubblico, presentando cartelloni coerenti con una certa idea di teatro ed un certo livelli qualitativo, per cui le persone vanno anche “a scatola chiusa”.
Questi sono gli esempi da cui partire, dal punto di vista dei teatri.
Dal punto di vista delle compagnie, credo modestamente che sia importante considerare il pubblico come punto di riferimento della creazione. Non il proprio egocentrico piacere e neanche il proprio genio incompreso, bensì l’equilibrio tra la propria creatività e il come questa viene percepita dagli spettatori.
Se si fanno spettacoli che funzionano, gli spettatori usciranno soddisfatti. Se il pubblico non capisce e si sente ignorante, oppure se si annoia, è la compagnia a sbagliare, non certo il pubblico.
Le autorità locali e nazionali, la politica, dovrebbe incentivare e promuovere la formazione e l’educazione all’arte, non disincentivarla.
Ecco, secondo me con queste tre cose, forse il mercato del teatro potrebbe iniziare a funzionare davvero.