Teatro

Matera2019: quando la scena pensa al futuro

28 Luglio 2017

«Quando arrivò la notizia che saremmo stati Capitale Europea della Cultura eravamo tutti in strada, ci fu grande euforia, ci abbracciavamo tra sconosciuti. Ci auguravamo reciprocamente “buon futuro!”. Adesso quel futuro dobbiamo prepararlo, dobbiamo pensare a cosa lasceremo ai nostri figli». Chi parla è l’architetto Mattia Antonio Acito, che sta curando un progetto di recupero e ristrutturazione del Cinema comunale Kennedy di Matera, nell’enorme ex Convento dei Cappuccini. Ne faranno un luogo multifunzionale, adatto agli standard europei come sala prove per la danza e per la performance, spazio cinema, studio di registrazione e foresteria.

Affrontare seriamente il futuro sembra la parola d’ordine. Anche quando si parla di “vergogna”, parola chiave a queste latitudini: prima che arrivassero Olivetti o Pasolini, i Sassi di Matera, considerati “vergogna nazionale”,  vennero velocemente sgomberati nel 1952 su ordine del presidente De Gasperi. La popolazione fu trasferita in nuovissimi ed efficienti quartieri: La Martella, i borghi Venusio, Picciano, e poi La Nera, Spine bianche, Serra Venerdì…

Come si viveva nei Sassi

Ed è in queste palazzine, che raccontano “il futuro com’era”, ossia quel che si poteva immaginare allora, che paradossalmente si conserva meglio la memoria dei Sassi, della Matera anni Cinquanta, perché qui vivono ancora quegli abitanti. Chissà, viene da chiedersi, come prospettavano le “magnifiche sorti e progressive” a quei tempi, chissà come pensavano il progresso o, per l’appunto, il futuro.

Se n’è parlato nell’ultimo degli incontri promossi dal Festival Nessuno Resti Fuori, dedicato proprio alla “più bella delle vergogne”. La vergogna, oggi, non fa più scalpore: chi si vergogna più? Passiamo soavi da uno scandalo politico all’altro, serenamente assistiamo a guerre e massacri, indifferenti o addirittura indignati seguiamo le tragiche migrazioni di popoli e genti, scuotendo la testa ci adattiamo al tracollo delle nostre città.

Il gruppo Architecture of Shame è un collettivo di architetti che si occupa proprio di questo, di vecchie e nuove vergogne. Fabio Ciaravella ha presentato un video in cui ha raccontato il noto “sacco di Palermo”, la sistematica distruzione urbanistica del capoluogo siciliano, parlando di quanto la “velocità” abbia contribuito a snaturare centri storici; mentre Mimì Coviello ha spiegato il rapporto sorprendente che lega Matera a Venezia o a Firenze proprio alla luce di quanto le città «subiscano» la propria immagine.

Marcello Santantonio di Legambiente, invece, mappe alla mano, ha svelato i nuovi scandali di Matera: il quartiere Acquarium, agglomerato senza un vero centro vivibile, o l’enorme discarica, fatta da quattro colline di rifiuti e un enorme “lago” di percolato.

Ma al futuro non si rinuncia: lo sanno bene, ad esempio, i giovanissimi componenti dello IAC-Centro Arti Integrate che ha organizzato il festival materano. Il minuscolo gruppo riesce a vivere delle proprie economie, attivate grazie a bandi regionali e iniziative di vario genere in un progetto che punta al coinvolgimento delle persone, alla condivisione di valori e prospettive.

I volontari del Festival Nessuno Resti Fuori

 

Capita, così, che Anna, 28enne, il volto intenso e bellissimo, sia arrivata allo IAC dopo gli studi universitari in Scienze dello Spettacolo per mettere in pratica quanto aveva appreso sui libri e si sia fermata proprio per cercare di incontrare, attraverso il teatro, una nuova e diversa umanità: «Matera2019 – dice – è una possibilità, ma dobbiamo stare molto attenti, dobbiamo saper seminare curiosità e amore nelle persone. Trovare quel seme e innaffiarlo». Nel gruppo c’è anche Dario, 27 anni, che ha lasciato l’azienda agricola di famiglia e, pur senza esperienze, sta imparando a occuparsi di organizzazione e comunicazione dello spettacolo: «Molti giovani, qui, vivono nell’incertezza, decidono di partire per studiare fuori. Ora stanno tornando, anche incuriositi dalla sfida di Matera2019». Tra quanti pensano di tornare c’è Ilaria, che studia Lettere a Bologna: «ho fatto il tirocinio al Festival Nessuno Resti Fuori del 2016, e sono voluta tornare. Il tentativo di noi tutti è di cambiare la mentalità di questa città, va modificata la radice diffusa fatta di chiusura e provincialismo. Sarei felice di fare qualcosa per Matera. E la scadenza del 2019 ci fa interrogare su cosa sia davvero la cultura per i Materani». Nella squadra IAC, come tecnico, lavora Joseph, francese di Tolosa, esponente di quella “generazione Erasmus” tanto preziosa per il futuro europeo. «Apprezzo il percorso dello IAC – dice – e per questo progetto sono pronto a far di tutto. A Tolosa sarebbe impossibile inventare una simile iniziativa, vista la pesantezza delle tante istituzioni culturali della città. A Matera si stanno aprendo delle possibilità, speriamo che durino anche dopo il 2019».

Tra sfida e possibilità sembra dunque giocarsi la prospettiva della Capitale della Cultura, puntando a qualcosa che arrivi ben oltre la scadenza prefissata. Ne è convinto anche il giovanissimo ghanese, ormai materano d’adozione, Ali Sohna, che abbiamo già incontrato come protagonista de Le Argonautiche: «ho 19 anni, avrei tanto voluto diventare un nuovo Messi e invece sono a Matera a fare l’attore e il mediatore culturale. Allo IAC mi sento a casa, mi hanno dato la possibilità di parlare, di guardare negli occhi gli altri. Ho bisogno di incontrare persone, di capirle per il loro sguardo. Dobbiamo continuare a inseguire i nostri sogni: i politici vogliono distruggere l’immagine dei migranti, ma noi, tra ragazzi, giochiamo, scherziamo, parliamo, ci confrontiamo. Materani e africani assieme. I giovani sono il futuro del mondo, senza differenze. Sta a noi portare avanti la storia».

Ci troviamo di fronte, insomma, a una sorprendente specificità tutta materana, o lucana: complice la spinta propulsiva di Matera2019, si torna a discutere animatamente del senso della propria azione, a parlare e progettare i prossimi anni, i cambiamenti necessari, i nodi da sciogliere. E anche un piccolo festival come Nessuno Resti Fuori fa emergere storie, parole, racconti, incontri, prospettive. Un anomalo vaso di Pandora, ricco di contenuti – anche indipendentemente dalla fase spettacolare – che porta a ridimensionare lo sfavillio di manifestazioni nazionali analoghe, magari incentrate su vetrine scintillanti o su scandaletti che indignano solo il provincialismo di destra, «come se – scriveva il sempre illuminato Ennio Flaiano nel 1964 – per assistere a uno scandalo, in questo Paese, sia indispensabile andare a teatro».

La annosa e spesso stantia retorica della “necessità del teatro” qui acquista rinnovato valore: tirata a lucido, dà senso e forza a chi vive il teatro anche come forma di cittadinanza attiva. Insomma, il futuro è là, sembra a portata di mano: restano un paio d’anni ancora per farlo iniziare. Cominciamo a lavorarci.

(Nella foto di copertina: il pubblico dello spettacolo Hanà e Momò di Principio Attivo Teatro, al Festival Nessuno Resti Fuori)

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