Teatro
L’inferno in città del Teatro delle Albe
La storia del teatro, nei quotidiani, è una storia al contrario: la parte dedicata agli spettacoli, com’è noto, è in fondo, e per leggerla subito occorre sfogliare il giornale al contrario, dalla fine all’inizio. Così, stranamente, in questa visione alla rovescia, le pagine gridate dove campeggiano titoli di politica o di guerra diventano le ultime, un’eco lontana di mondi meschini, violenti, arruffoni.
Si sa, il teatro non fa notizia, non ha tanto spazio. Però, sorprendentemente, è il teatro che insegna – o potrebbe insegnare, le eccezioni non mancano – un vivere civile, sano, un parlare franco e vero di temi alti, complessi, e al tempo stesso umani. Se la politica è brava a insegnare la paura, il teatro è un costruire la città su basi diverse: di incontro, di scambio, di divertimento, di poesia. Soprattutto quando il teatro prende voce e abita realmente la città, la attraversa, la reinventa.
Come capita, in questi giorni, nella bella Ravenna, dove il Teatro delle Albe ha iniziato un cantiere di lavoro che si traduce in un pluriennale percorso sulla Divina Commedia. Le Albe di Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Luigi Dadina, Marcella Nonni (di tutto lo staff e dei tanti giovani artisti che in questi anni sono cresciuti sani e liberi all’ombra serena dei fondatori), è oggi uno dei maggiori punti di riferimento teorico, poetico, etico e politico della scena italiana, e lo conferma con questa emozionante edizione dell’Inferno.
L’appuntamento, per gli spettatori di quello che si preannuncia essere uno spettacolo itinerante, è davanti alla Tomba del sommo Poeta. Qui la piccola folla viene raggiunta da Ermanna e Marco, biancovestiti, che cordialmente, amichevolmente salutano tutti e ciascuno. Un piccolo gruppo musicale dà il segnale per l’apertura della tomba. E Inferno, da questo momento, sarà un sorprendente rito laico e collettivo, religioso e umano.
Nel mezzo del cammin di nostra vita – anche se non conto di viver cento anni – mi ritrovo in mezzo a tanta gente che segue attenta i primi versi del primo canto. Ermanna scandisce bene, troppo bene viene da pensare, dando un taglio “didattico” che lì per lì non capisco: ma la scelta è presto svelata. In mezzo a noi, agli spettatori, un gruppo di cittadini risponde a Ermanna/Dante, ripete i versi, sono parte in causa di una liturgia che lentamente si impossessa di tutti, coinvolge, e subito affratella. Poi il gruppo si muove al seguito di una tromba solista: ci incammina nelle strade della città, mentre Martinelli/Virgilio impugna un megafono e anziché slogan sindacali o politici scandisce i versi di Dante e tutti seguiamo, rispondiamo, mentre i passanti guardano sorpresi e divertiti il piccolo e potente corteo poetico. È un “dire” che assume i toni non solo della letteratura ma dell’orazione civile.
Difficile riportare qui, in parole, il senso di coinvolgimento e partecipazione, la forza vibrante di questo Inferno reso forte e vivo. Una sosta di fronte a Sant’Apollinare Nuovo per incontrare una Beatrice bambina che con candore estremo incoraggia al viaggio. Si tratta, allora, di entrare all’Inferno, di andare nella città dolente che per le Albe è il teatro Rasi, la ex chiesa divenuta sede delle attività della compagnia. Metafora significativa, non c’è dubbio, per questo lavoro che è tutto un grande, ampio pensiero: una esperienza che responsabilizza ogni singolo spettatore e la collettività.
La discesa agli inferi è teatrale, certo, ma non semplicemente o esclusivamente estetica: semmai è fare i conti con se stessi e con il proprio mondo. L’ingresso all’Inferno è straordinario, travolgente: dopo averci stretto le mani, come a incoraggiamento, Ermanna e Marco ci spingono oltre una tenda nera, dove siamo accolti da una brigata di giovanissimi soldati armati di kalshnikov, che gridano all’impazzata. Ci troviamo stipati in uno spazio buio, dal soffitto riflettente, prigionieri, ostaggi: ci osserviamo sottomessi a un ambiguo Caronte, un kapò dall’aria hitleriana (il bravo Roberto Magnani), che fa risuonare stridente una parte di Venezia salva di Simone Weil. Poi è un precipizio, uno spostarsi e sorprendersi, un girare nei meandri dello spazio teatrale completamente reinventato, al di là di ogni coordinata abituale.
Su e giù per le scale, scale ovunque, inseguiti dalle Erinni, stuzzicati e sbeffeggiati da Diavoli possenti e sbruffoni, sedotti dalla morbosità del male, ci perdiamo nei gironi infernali che tanto ricordano la realtà. Tornano Dante e Virgilio a segnare (e insegnare) la strada: suggerendo accostamenti, citazioni, rimandi. Ecco dunque Paolo e Francesca davvero teneri adolescenti, travolti da mari di percussioni sulle parole di Ezra Pound. Assistiamo attoniti allo spettacolo aspro delle anime condannate, ci commuoviamo al colloquio tra Luigi Dadina, impettito e austero Farinata e, accanto a lui, uno struggente Cavalcante di Giorgio Piazzi; troviamo in Pier Paolo Pasolini lo spirito libero e maestro di Brunetto Latini. E ancora Pier Delle Vigne, osservato come in un teatrino anatomico, incarnato da Alessandro Argnani. Ricorrono i temi, le situazioni aspre e dolenti, le bolge dei peccatori.
Ma cosa è il peccato? Chi è il peccatore oggi? A me questa sembra la domanda che sottende la visione aperta di questo Inferno. Che è più di solidarietà ed empatia che non di condanna e morale. C’è un sentire – almeno io l’ho sentito – di umana compassione, lo sguardo sapiente ma non saccente di chi conosce e condivide le sorti, banali banalissime, di ogni essere umano. L’inferno non sono più gli “altri”, con buona pace di Jean Paul Sartre, e noi osservatori, spettatori delle sofferenze altrui, capiamo in un istante che siamo ugualmente, inesorabilmente, condannati a peregrinare, a sprofondare sempre di più in quella matassa di dolore. I dannati, insomma, siamo noi, viaggiatori inconsapevoli all’inferno del reale.
Ma c’è ancora tempo per lo sconsolato episodio del conte Ugolino (straordinaria qui, Ermanna Montanari: una vetta altissima di interpretazione del verso poetico), o per l’assoluto monologo di Ulisse, che si solleva, con una specie di montacarichi, in alto, quasi a toccar il soffitto (micidiale Alessandro Renda). O ancora ecco il Malacoda di Massimiliano Rassu, o le tre malebolge, stanzette per “istallazioni”, microinferni personali dei ruffiani, dei simoniaci con tanto di selfie e degli usurai. E dopo aver attraversato le eterne scale del fiume di pece, o le stanze insonorizzate di Vanni Fucci e dei pazzi si scende nell’ex abside della chiesa/teatro, al fondo più fondo. Il male assoluto. Ecco due manichini sorridenti che girano come un carillon davvero satanico. Il male, se c’è, è da queste parti: nelle forme di plastica del dio mercato.
Basterebbero queste sequenze, confusamente riassunte, ambientate si è detto in uno spazio teatrale totalmente ripensato nelle sue strutture, per fare di questo spettacolo un capolavoro: invece c’è un epilogo che toglie il fiato. Giunti a una porticina, sul retropalco, possiamo finalmente uscire. Marco Martinelli e Ermanna Montanari ci salutano abbracciandoci, uno a uno, invitandoci “a riveder le stelle”. Ad attenderci fuori, l’aria fresca di una sera d’estate, una scala lunghissima, senza fine, appoggiata a un albero secolare e, disposti a semicerchio, tutti coloro che hanno fatto lo spettacolo: diavoli, dannati, peccatori. Ma ora sono persone, la gente di Ravenna, il coro che ci ha fatto strada, tutti coloro che hanno preso parte a quest’opera semplice e complessa, corale e individuale. Proprio nella dialettica tra l’uno e il noi si coglie il senso del lavoro: un percorso personale si fa collettivo.
Noi spettatori, allora, chiudiamo il cerchio attorno al grande albero (come si vede nella foto di copertina). Un rito antico si compone, un abbraccio assieme in forma di applauso. La discesa agli inferi è finita, c’è un’altra possibilità, c’è un altro modo di pensarsi e pensare, a portata di mano. Mai come questa volta ho sentito la Commedia dantesca così vibrante, popolare, concreta.
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