Teatro
Lepage, la rivoluzione della memoria
Tra le mie esperienze di spettatore, ricordo con immutato piacere la versione integrale de I sette rami del fiume Ota, un capolavoro di Robert Lepage di circa 11 ore, che vidi a Montréal, anche grazie alla Delegazione del Québec in Italia, nell’allora Festival des Amerique, ormai tanti anni fa. Fu una giornata di grande teatro, di condivisione totale di sensazioni, di emozioni, di ricordi.
Poi ho avuto la fortuna di vedere altri lavori, solo alcuni nella grande produzione del regista e attore: Vinci, Le polygraphe, Les aiguilles et l’opium, The Andersen Project, La trilogia del Dragone, La face cachée de la lune, fino all’Opera del Mendicante. Ricordo anche un bel film, Le confessional, in cui affrontava senza reticenze la questione delicata della opprimente presenza della chiesa cattolica nella cultura del Québec.
Tutti emblematici esempi di una cifra personale, fatta di fantasia e artigianato teatrale, che non esclude la tecnologia, ma la integra sapientemente nel lavoro manuale.
Una delle grandi, innegabili doti di Robert Lepage è la capacità di narrare storie. Inseguendo sempre il filo della memoria, personale e pubblica, intrecciando magistralmente autobiografia e vicende della sua nazione, sovrapponendo piani narrativi e visivi, Lepage si è affermato in tutto il mondo come maestro di un teatro elegante, garbato, ironico e al tempo stesso politico, incisivo, che non perde mai di vista il legame, stretto, con lo spettatore.
Se I sette rami del fiume Ota partiva da Hiroshima per affrontare il tema dell’identità, dei rapporti familiari, dell’amore e dei legami sentimentali, con 887, lo spettacolo presentato tra mille applausi in apertura del Romaeuropa Festival, il regista fa ancora un gioco di prestigio visivo e drammaturgico, tenendo assieme le fila di racconti multipli, tra autofiction e testimonianze storiche.
Il monologo (per quanto sia riduttivo definirlo tale, non fosse altro per la presenza attivissima di 9 invisibili tecnici dietro le quinte) si apre come una sorta di Finestra sul cortile, di fronte a un condominio-mondo.
Lui, Lepage, avvia la conversazione – in italiano – con il pubblico, con uno spunto narrativo semplicissimo: chiede di spegnere i cellulari. Poi prende il suo telefono, e comincia a parlare del fatto che, causa l’onnipresente presenza di questi dispositivi, nessuno si ricorda più nulla, nemmeno il proprio numero. Lui, per quei strani meccanismi della memoria, ricorda però il numero di telefono della casa in cui abitava da bambino, e il numero civico di quel condominio: quel 887, di rue Murray, che dà il titolo allo spettacolo.
Proprio la casa è al centro del viaggio nel ricordo. La “scatola magica” della scena è composta da un grande parallelepipedo ruotante, che di lato in lato si muta: ruotando e scomponendosi, può essere la facciata, in scala ridotta, dell’edificio in cui il giovane Robert abitava con la famiglia; poi il dettaglio dell’appartamento, infine l’interno iperrealistico della nuova casa in cui l’uomo Lepage, ormai artista affermato, vive.
Poi, completano l’assetto visivo della narrazione delle proiezioni video o fotografiche e ulteriori plastici, maquette come quello della via principale di Québec City in cui sfilerà De Gaulle prima di un celebre discorso sul Québec libero.
Ma al centro c’è lui, l’ironico affabulatore, il narratore che, sul filo della nostalgia, ripercorre la sua infanzia, svelando lentamente gli ulteriori piani drammaturgici di 887. Come sempre accade con questo mago della scrittura scenica, infatti, le suggestioni non sono univoche: il discorso biografico cede il passo alla biografia della nazione, alla Révolution Tranquille del Québec, che si interseca con una riflessione sull’arte dell’attore. A far da collante ai livelli è proprio la memoria: cosa ricordiamo? Perché ricordiamo?
Lepage racconta di non riuscire a imparare un poema, che deve declamare in pubblico in una serata di gala: si è impegnato, deve farlo, ma non ne viene a capo. Si tratta di Speak white, scritto da Michèle Lalonde nel 1968, in pieno fermento indipendentista: un testo bellissimo e feroce, difficile. Alla fine, dopo mille traversie, Robert Lepage lo dirà, con passione e partecipazione, in uno dei momenti più alti dello spettacolo, quasi il punctum emotivo ma paradossalmente nitido e razionale in cui convergono tutte le trame, gli indizi, le suggestioni di cui è disseminato lo spettacolo. Ecco dunque che il “privato” si muta in “comune”, che il ricordo personale diventa bomba pronta a esplodere in pubblico, che la faticosa conquista dell’identità individuale si misura con quella sociale e politica. Si apre, dunque, il racconto, evoca le azioni del FLQ, il Fronte di Liberazione del Québec; svela la tensione tra anglofoni e francofoni; chiama in ballo la necessaria autodeterminazione del popolo.
Tutto si tiene, tutto entra sapientemente nel testo.
La nostra maggior studiosa del teatro di Lepage, la critica Anna Maria Monteverdi, parla di nuova epica orale: ed è una definizione che si attanaglia benissimo alla creazione del Maestro quebecchese. Perché lui, cantore sapiente di un’epica del contemporaneo, continua a piegare l’arte del teatro a un compito grande, eterno seppure impossibile: raccontare e raccontarci, per quel che siamo, per quel che siamo stati, suggerendo – forse più di un po’ – quel che potremmo o dovremmo essere.
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