Teatro
Le trasparenze fanno festa a Modena
Si apre la stagione dei Festival. Ogni anno, mentre la “primavera tarda ad arrivare”, come cantava il poeta, si attrezzano palcoscenici e si tracciano mappe di un circuito teatrale diverso. Dai Festival maggiori e storici come Spoleto, Santarcangelo, Siracusa, Dro, Volterra passando per i più giovani e complessi, non mancano i soliti problemi: tanto per citarne solo due, basti pensare a quanto accade a Napoli (in perenne cerca di identità, scosso più che altro da nuovi conflitti interni di cui varrà la pena dar conto) o a Castiglioncello, dove la Giunta sta di fatto sottraendo al Festival Inequilibrio la storica sede di castello Pasquini (anche qui: temi su cui converrà tornare).
Però, nonostante tutto, si festeggia, ovvero si festivaleggia da Nord a Sud della Penisola.
Ad aprire le danze, almeno per me, è il festival Trasparenze di Modena. È una bella parola “trasparenza”: applicata alla Pubblica amministrazione sta per chiarezza di gestione, per accessibilità ai dati; declinata a uno sguardo o a una persona sta per sincerità, leggibilità, onestà. E riferita all’acqua suona come purezza, freschezza, potabilità. E sono aggettivi che ben si possono applicare alla ciurma guidata dai direttori Agostino Riitano e Stefano Tè, e del Teatro dei Venti di Modena: compagnia coraggiosa (che da tempo lavora anche nel sociale), enclave partenopea in terra emiliana, il Teatro dei Venti anima “l’altra Modena” ossia quella che non gravita attorno all’istituzionalità al quel grande Teatro Stabile (ora Nazionale) che è l’ERT.
Arrivando al Festival, infatti, si respira il clima di una festa dell’Unità d’antan, quando ancora avevano senso e valore: una festa popolare, partecipata, in cui si intrecciano percorsi, etnie, storie, arti diverse. Così capita di scorgere un “barbiere” mettere il suo bel sedile in mezzo a un giardino, e far filosofia oltre che barba e capelli; oppure vedere una sorta di galleria d’arte cui si accede uno spettatore alla volta, con cuffia, ascoltando storie diverse. O infine può capitare di salire su una vecchia cinquecento gialla per un “cinema” davvero originale, destinato a due soli spettatori. Insomma, Trasparenze, giunto al quinto anni di vita, è un insieme di musica, teatro, danza, incontri ma soprattutto di umanità curiosa, addirittura felice: cosa rara di questi tempi. In questo bel clima, mi sono toccati in sorte – nell’arco di una giornata – tre spettacoli.
Il primo è Dopodiché stasera mi butto, di Generazione Disagio: gruppo irriverente, goliardico, testosteronico, ironico di cui vedemmo i primi passi. La compagnia si immagina una sorta di gioco dell’oca tra tre concorrenti, guidati da un solerte e compassato presentatore, che sono esponenti della “società civile”: tre disadattati, disoccupati, eterni studenti, perenni cococo, aspiranti qualcosa. Esodati antelitteram, senza lavoro né stipendio né pensione: che è la condizione ormai diffusa del Belpaese. Ma anziché fare la solita lamentatio, Generazione Disagio la butta dichiaratamente in caciara, in una bizzara e divertentissima corsa al massacro: chi vince al gioco finalmente può suicidarsi, e farla finita con le fatiche quotidiane di auto-realizzazione. Lo spettacolo è un’analisi feroce del nostro tempo, giocato con grande intelligenza sulla corda della più greve idiozia: luoghi comuni, cinismo, egoismi, paure, tutto mescolato in un ritmo indiavolato, che coinvolge e trascina il pubblico (addirittura con lanci di palline colorate ai danni dei giocatori). Dopodiché stasera mi butto è un viaggio dall’individuale all’universale: è il racconto di una generazione disagiata, certo, ma non solo. E la radicale scelta del registro comico, addirittura farsesco, non inganni: c’è una ricerca profonda, sociale e antropologica, in questo percorso. Sono bravi, in scena, Enrico Pittaluga, Luca Mammoli, Graziano Sirressi e Andrea Panigatti a giocare e prendersi in giro; così come è solida la regia di Riccardo Pippa. Forse, da spettatori, avremmo voluto un momento, un istante di abisso nel dipanarsi del racconto: invece il gruppo lavora sempre per contrappunto e anche quando si potrebbero spalancare le porte di una di tragedia vera, immediatamente sottraggono pathos in nome della farsa. Sono scelte, le rispettiamo e – di fronte a uno spettacolo così smaccatamente di “idioti”, ma alla Lars von Trier – ci godiamo le amarissime risate regalateci dal gruppo.
Secondo spettacolo in cartellone è stato H+G, struggente rilettura di Hansel e Gretel che il regista Alessandro Serra, con la sua compagnia TeatroPersona, ha allestito assieme agli attori e le attrici della Accademia Arte della Diversità (in coproduzione con Romagna Teatri).
Si tratta dunque di un lavoro che mette assieme interpreti con disabilità e senza, e che prende spunto dalla nota favola dei due bambini abbandonati dai genitori rimodulata dai Grimm. Un archetipo favolistico, insomma, conosciuto e ri-conosciuto che Serra riesce però a rendere nuovo e commovente.
In uno spazio che vede il pubblico disposto sue due lati di una lunga pedana fatta di lastre di ferro, con pochissimi e simbolici elementi scenici, la vicenda è affidata a un bravissimo narratore (Rodrigo Scaggiante) che sembra far emergere ogni singola parola da una profondità interiore lontana e magica. Poi ci sono i genitori, quasi spettri alla American Gothic di Grant Wood, ma in versione protestante nordeuropea (Lorenzo Friso dal volto intagliato e Chiara Michelini); e infine i due “bimbi”, (Michael Untertrifaller e Maria Magdolna Johannes) vero fulcro drammatico della storia.
Tutto è rarefatto, altamente evocativo, con istanti di lirica purezza. Come spesso accade in questi casi, però, lo spettacolo, pur di ottima fattura in ogni suo dettaglio, dà adito a qualche domanda nel momento in cui una recitazione più “strutturata”, come quella della danzatrice Chiara Michelini (in particolare nel ruolo della strega) si confronta e cozza con la immediatezza straordinaria degli attori con “disabiltà”. Non so: è l’eterno dilemma del teatro cosiddetto “sociale d’arte”, quando funziona. Tutto quello che è anche solo minimamente “recitato” suona falso, aggiunto, forzato perché spinge altrove rispetto alla necessità cogente di chi invece è portatore di verità antiche e diverse. Ciò non toglie che H+G abbia avuto un caloroso e condiviso consenso di pubblico.
Infine il terzo spettacolo della giornata Il Minotauro, viaggio di un eroe che preferisco considerare un semplice passo falso della solida compagnia Zaches Teatro, e su cui è meglio, per educazione, tacere.
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