Teatro

La ricerca teatrale (finalmente) al capolinea

9 Febbraio 2016

Uno spettro si aggira per i palcoscenici. È quello della ricerca teatrale italiana.

Sono in scena contemporaneamente – l’uno per due settimane, l’altro per troppi pochi giorni – due spettacoli significativi della “nuova ricerca” italiana. Sto parlando di Ti regalo la mia morte, Veronika, con la regia di Antonio Latella e Ubu Roi, diretto e interpretato Roberto Latini.

Dal momento che i due lavori sono stati già ampiamente visti, riccamente recensiti e financo premiati, mi viene gioco facile fare altre considerazioni, tentando di non solo di tenerli assieme, ma anche – e soprattutto – di trar profitto dalla coincidenza temporale e dalle fortuita scelta nella programmazione del Teatro di Roma e del Teatro Vascello.

Antonio Latella, in questa produzione ERT, riprende l’amato Fassbinder, accerchia – direi assedia – il soggetto e la storia di Veronika Voss e ne estrae un mirabile gioco metateatrale (o metacinematografico). Lo spettacolo non è pienamente riuscito, a tratti contorto e verboso ma, come sempre nelle creazioni di Latella, è inquietante al punto da suscitare domande e prese di posizione anche aspre.

Ti regalo la mia morte, Veronika. Regia di Antonio Latella
Ti regalo la mia morte, Veronika. Regia di Antonio Latella

Al di là dell’esito scenico, dunque, pure per molti aspetti notevole, mi pare di poter dire che il regista (con i suoi sodali) abbia ormai definitivamente abbracciato un periglioso viaggio nella drammaturgia, destinato a allargare o speriamo inventare una scrittura scenica del nostro tempo. È un viaggio teatrale faticoso – per chi lo fa e per chi lo riceve – quello scelto da Latella: chiede molto allo spettatore come all’interprete. Quasi che abbia (simbolicamente) preso il testimone lasciato da Luca Ronconi: è un esempio, non se ne vogliano i puristi ronconiani, né tantomeno i “latelliali”. Ma quel che accumuna i due – diversissimi su mille fronti – è proprio l’ansia di saggiare scritture diverse e di declinare, assolutamente nei margini imprescindibili dello specifico teatrale, fonti le più diverse.

Non solo per spunto o assunto di partenza non abituale (un romanzo, una sceneggiatura, una biografia) quanto anche per costruzione scenica che – senza dimenticare mai i codici del palcoscenico – cerca disperatamente di approdare ad altro.

Ti regalo la mia morte, Veronika non fa eccezione: la partitura intertestuale, gli scavallamenti semantici, le derive psicoanalitiche che si dipanano dal personaggio principale (la sempre brava Monica Piseddu circondata dalle sue “scimmie”) sono altrettanti piani narrativi che si intrecciano, si moltiplicano, evocano e suggeriscono allo spettatore sensazioni complesse, mai effettivamente risolte. Ridondanti, al solito, eccessivi, eppure a tratti spiazzanti.

Monica Piseddu
Monica Piseddu

E nel finale cechoviano, poi, si sugella il definitivo spostamento (o spaesamento), il superamento di Fassbinder stesso, verso un “gioco” teatrale che si diverte a mettere assieme tutto e il contrario di tutto.

Vien da pensare che sia stufo di se stesso, del suo gusto smaccatamente pop, di certo compiaciuto cripticismo: Antonio Latella spinge verso altro. In questa prospettiva, penso che l’apice l’abbia raggiunto dall’essenzialità scenica e interpretativa di un “pezzo” come Ma, ispirato alla figura della madre di Pasolini: sospeso, dolente, rarefatto e avvolgente, tragicamente attuale.

Forse neanche Latella si rende conto (o forse sì) di quanto sta rischiando, di quanto stia provocando il pubblico costringendolo ad andare in territori inesplorati, infidi, mai consolatori. Cerca, insomma, esiti scenici che possano mettere in discussione anche i risultati acquisiti dalla ricerca nostrana che ha creato una “gabbia” oramai fin troppo stretta.

E qui entra in gioco l’altro alfiere dell’avanguardia contemporanea, Roberto Latini.

Seguo il suo percorso praticamente dal debutto o addirittura da prima, non ho visto tutto, ma certo molto. E posso affermare, sulla scia di molti recensori, che l’Ubu Re sia uno dei suoi prodotti migliori, per complessità, acutezza di sguardo, partecipazione del gruppo (tutti bravi) e soluzioni sceniche.

Dunque: benissimo!

Siamo felici della calorosa accoglienza del pubblico e della critica entusiasta– meno degli strani meccanismi del sistema teatrale nazionale, per cui questo lavoro è costretto a poche e sporadiche repliche. Di Ubu ne vediamo pochi in Italia: ricordiamo volentieri quello ironicamente iper-borghese di Donnellan alla Biennale di Venezia o, anni fa, la travolgente edizione romagnola del Teatro delle Albe di Martinelli. Poi poco altro: meriterebbe dunque ogni attenzione e tanto spazio questo realizzato da Roberto Latini.

Detto ciò, l’Ubu Roi di Latini e del suo Fortebraccio Teatro è uno spettacolo del secolo scorso. Mi spiego.

Di fatto, mi sembra che Roberto firmi un concentrato (meglio: un precipitato) di tutta la “nostra” ricerca. A partire dalla figura centrale, protagonista, quell’Ubu-Pinocchio-Carmelo Bene, diventato ormai una maschera del post-moderno e condivisa da molti (basti pensare alla recente produzione di Armando Punzo). Una figura che si è fatta addirittura consolidata, strutturata, quasi pervasiva.

Non solo: oltre al nume Bene, e al divampante spirito artaudiano, lo spettacolo è pregno di citazionismo: dal concettuale al simbolico, nell’Ubu Roi si rintracciano agilmente Leo de Berardinis e Perla Peragallo, dal momento che il talento di Latini può vantare una sorta di “discendenza” diretta. Poi rimandi a Castellucci, frammenti di Wilson, evocazioni di Grotowski, oggetti kantoriani, suggerimenti da Tiezzi e molto altro…

Il tutto in una struttura drammaturgica smaccatamente nota: ancora il procedere per frammenti, per lacerti che si alternano al testo, con invocazioni-suppliche che si incastrano nel loop o nel crescendo musicale, in cui si insinuano le interpolazioni colte – le eterne citazioni dal canone shakespeariano: quei tre o quattro titoli conosciuti da tutti – che contrappuntano lo strato comico. Non mancano le maschere umane o animali, la biciclettina, i controluce, la gabbia scenica bianca abbacinante, certi sospensori modello Arancia Meccanica

Roberto Latini, foto di Simone Cecchetti
Roberto Latini, foto di Simone Cecchetti

Elementi che ritornano, spesso e volentieri, anche in tanti altri protagonisti della nostra scena (Latella primo fra tutti), che hanno fatto “tradizione” – come dice lo stesso Latini nelle note di sala – o addirittura “maniera” della ricerca. Ormai conformista e autoreferenziale, la scena di ricerca parla solo a chi sa riconoscere quei codici e quei segni. Siamo arrivati al punto di avere – come diceva il compianto Nico Garrone – un “teatro amatoriale di ricerca” fatto da quanti ripetono stancamente stilemi della ricerca che fu (ovviamente non è il caso degli artisti di cui stiamo scrivendo).

Insomma, mi pare che Roberto Latini si sia preso il coraggio e la responsabilità di evocare tutti gli spettri, di mettere assieme i passati, per fare – spero – il definitivo canto del cigno di quel mondo e di quel modo che da quaranta anni segna “l’avanguardia” soprattutto italiana.

Denunciare la “forma” dandola, reiterandola, è l’operazione più ambiziosa e certo più coraggiosa del regista e interprete: se ne fa carico, con intelligenza e ironia, mettendo bene in fila tutti i “santini” del bravo sperimentatore teatrale.

E non è un caso che abbia scelto Alfred Jarry e l’Ubu.

Mi piace sostenere che il Novecento, per quel che riguarda il teatro, non sia il “secolo breve” teorizzato da Hobsbwam, ma sia un secolo lungo, molto lungo che si è aperto proprio nel 1896, quando andò in scena l’Ubu Roi a Parigi. Eccoci dunque: possiamo sperare che, con questa edizione, si chiuda il Novecento del teatro, il secolo che va da Ubu a Ubu?

Siamo arrivati sin qui, ci dice Latini con l’eterno sorriso stralunato di Carmelo Bene.

Apologia e fine della ricerca: il traguardo è là, nel ghigno satanico di Mamma Ubu (fatta da un Ciro Masella en travesti, e da premio).

Allora, rispetto all’Ubu, definitivo e tombale, applaudito al Vascello; e rispetto alle sinuose accelerazioni di Latella, si tratta di ricominciare, di andare altrove, di allargare quelle maglie – sia della drammaturgia che della scrittura scenica: finirla di evocare lo spettro della ricerca “com’era dov’era”, dando definitiva sepoltura al cadaverino insepolto, allo zombie cui eternamente tocca rendere omaggio. La ricerca ha trovato quel che doveva trovare: quel che avanza sono miti, icone stanche degli anni Sessanta-Settanta, che hanno inchiodato troppo a lungo il nostro teatro.

 

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