Teatro

Il teatro di Oltreunpo’ mette in scena l’attualità della condizione umana

4 Febbraio 2018

Dal 18 al 21 gennaio è andato in scena per la regia di Marco Oliva a Milano al Teatro Delfino “La condizione umana”; uno spettacolo forte e pregno di attualità, che già dal titolo si domanda implicitamente quale sia la condizione quotidiana, e mediante vari quadri scenici sviluppa le tematiche dell’immigrazione, dell’intolleranza, dell’accettazione.

Il titolo è in comune con due creazioni di Magritte, appartenenti a una serie in cui il poeta surrealista si chiedeva anch’egli, su un piano più metafisico, quale fosse la condizione del genere umano. La realtà era ritratta grazie all’espediente del dipinto nel dipinto che andava a celare una parte del paesaggio pur suggerendolo, come se l’oggetto fosse una percezione soggettiva, un’opinione.

L’inganno della percezione è proprio ciò che apre la scena; una proiezione dell’ombra di Marco Oliva in un richiamo al mito della caverna di Platone, ripreso dall’attore per tutto il soliloquio iniziale. Egli si trova ramingo e ormai solo in un mondo distopico, un luogo non luogo la cui desolazione è quella futuribile ma anche quella della sua realtà interiore, annientata dalla paura e dall’indifferenza; ha preferito l’inganno delle ombre alla speranza, ed è rimasta solo la possibilità di rimpiangere un dialogo mai avvenuto.

 

 

Con un repentino intermezzo in cui anche tutti gli altri figuranti giocano sul tema soggetto-oggetto, dai toni quasi poetici del prologo si scende davvero nella caverna, nella preistoria morale. Un saggio delle trivialità e dei più beceri commenti che normalmente accolgono l’arrivo di nuovi immigranti; essi non sono umani, ma ibridi col volto da pesce. Un diverso inconciliabile, che si ripercuote ironicamente nelle differenze dialettali di coloro che sbraitando li rifiutano; è chi attende sul molo che ha perso l’umanità, deformato nello sforzo di odiare, così anche il proprio rappresentante non può che emettere urla belluine. Dagli improperi, alle grida e poi al silenzio di chi boccheggia muta richiesta di soccorso.

Rimangono su quella spiaggia Elena Martelli e Martino Iacchetti. Interpretano dei villeggianti, la classe media con le sue piccole conquiste borghesi; il terrore che qualcuno sottragga loro quella felicità materiale, che rovini la vacanza dalla frustrazione accumulata in un anno di fatica; il sollievo di sentirsi un poco migliori solo per aver avuto buona sorte nel luogo di nascita; la speranza di un miglioramento sostanziale svenduta per del pesce fresco.

Anche nella nazione di immigrati per antonomasia, gli Stati Uniti d’America, non c’è più spazio per il sogno felice; le diversità sono vittime dell’uniformazione e non fa distinguo l’applicazione della violenza in una scena che ha quasi un impatto fumettistico da post-ironia del web, la quale ha anche influenzato l’alt-right statunitense tingendo la speranza di un “America great again” di nero.

Ecco quindi comparire sul palco i neofascisti; stereotipati nella ribellione rabbiosa, sono disuniti e rimangono saldi unicamente grazie alla gerarchia imposta dal loro capo, Gabriele Natale. Sanno che è questione di percezione, si fingono addomesticati e nel loro sproloquio usano un linguaggio quasi ascrivibile al rossobrunismo, caro a certi filosofi in vena di sincretismi; un neologismo che è una non ben definita palude ideologica tra socialismo e fascismo, quasi a far sentire in colpa l’estinta social-democrazia, o chi, per essa, ha lasciato la protesta e la speranza sociale a siffatti personaggi.

 

 

Eccolo dunque l’intellettuale che si concretizza, il filosofo, il parolaio da televisione; attraverso un linguaggio spettacolarizzato dissocia completamente la realtà dalle parole, miscelandole sapientemente per piegare i suoi argomenti all’utile e all’interesse personale. Il dialogo con la conduttrice è, in verità, un coatto monologo, che funge da contrasto per la scena successiva.

Lì troviamo la concretezza delle parole di Cristo; un intimo discorrere, senza il bisogno di spiegare fa giungere maieuticamente i suoi discepoli alla propria saggezza, mettendoli in guardia dai corrotti interpreti del verbo. Chiude lo spettacolo forse il quadro più toccante, la cicogna apolide ottimamente interpretata da Bruna S. De Almeida, che porta in grembo il futuro ma ha le ali spezzate, non ha i mezzi per donargli la vita che vuole, vede ciò che potrebbe essere ma non è, e così la speranza si diluisce nella disperazione.

L’eclettismo di questo spettacolo teatrale è anche la risposta alla domanda del titolo. Con una grande varietà di tecniche ed espedienti, dal doppiaggio alla canzone, dal muto allo stereotipo, dalla poesia alle trivialità, “La condizione umana” tratteggia a grana fine aspetti attuali, sebbene alcune pennellate siano più da fauves, che da surrealismo. La potenza espressiva di certi frangenti mitiga anche il rischio più evidente dello spettacolo, che si corre anche uscendo da una mostra d’arte, ovvero di avere affievolita la memoria del primo quadro all’ingresso; così, come i pugni alla Ėjzenštejn, la stigmatizzazione colpisce lo spettatore e lo stimola anche a una seconda visione.

Oggigiorno si cerca sempre di mantenere correttezza sui temi politici ma in questo caso viene riaffermato il diritto dell’arte al politicamente scorretto, la possibilità di esprimere tutto il proprio diniego verso certe forme di pensiero. Certo è un’arma pericolosa, ma lo stereotipo funziona, anzi si ritorce contro chi solitamente della categorizzazione fa scure per affettare la società, per semplificarla in un “bellum omnia contra omnes”. È per i farisei della scena di Gesù che conta più la questione della forma, della correttezza espressiva e se si prova a uscire dai canoni comuni si rischia di essere repressi, senza più distinzione tra la vera intolleranza e la giusta protesta; come per i neonazisti nello spettacolo, ogni pensiero se imbellettato può essere un’accettabile opinione.

Però non è che un altro inganno. Dietro le opinioni si nascondono persone, sofferenze, speranze; incomprese e incomprensibili per chi vive nell’illusione di una società dove tutti hanno le stesse possibilità. La madre che disperata vaga chiedendosi dove, come, quando, far nascere il proprio figlio mette a nudo la contraddizione che soggiace nascosta, a cui tutti sottostiamo per un po’ di felicità acquistabile.

Lo spettacolo stesso è allegoria dell’eterogeneità del mondo, che pur essendo uno è moltitudine. Bisogna tollerare la convivenza col diverso, le singole persone hanno molteplici aspetti; o si reprimono e si uniformano o si esprimono, in una società che deve essere pronta ad accettare. Nel primo caso, però, c’è il rischio di far esplodere la propria frustrazione, per poi trovarsi a credere che solo un’autorità possa far cessare i contrasti.

Chi rifiuta la diversità, non rifiuta solo l’estraneo, ma anche una parte di sé stesso, e si accontenta del poco che riesce a strappare alla propria esistenza, finendo nella caverna, ingannato dalle ombre che appaiono realtà, eppur pensando di essere sotto al sole di Lampedusa.

 

La compagnia Oltreunpo’ Teatro sarà in scena il 10 e 11 febbraio al Teatro Villa Litta a Milano, con lo spettacolo Resistenze

 

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