Teatro
Intrigo, amore e teatro di regia
Ho visto in infilata un paio di spettacoli che danno rinnovato smalto alla parola (e alla pratica) della regia. Ormai declinata, dai cultori del postdrammatico (categoria che fa ampio riferimento a un libro di Hans-Thies Lehmann di venti anni fa) in “debole”, oppure “post” oppure fragile, la regia italiana dà invece scossoni forti, per dire che ancora c’è, esiste, e ha senso. Meraviglia anche me, in parte, la cosa.
Tanto più che, a collegare questi segnali, si conferma la possibilità di ritrovare un rapporto forte tra percorsi assolutamente “di avanguardia” che si intrecciano ad altri più “mainstream”. Confluiscono, entrambi, in quella che potrebbe essere una “scuola” italiana di regia, raffinata e ancora incisiva, che ha definitivamente superato steccati e mette assieme storie diverse come quelle della prima regia critica e quelle che dalla ricerca, o della scrittura scenica più o meno estrema, arrivano finalmente a un confronto sistematico con il testo e con l’attore.
Insomma, l’ho messa giù in modo grossolano, me ne rendo conto: penso però che varrebbe la pena provare ad approfondire il tema della “regia” in Italia tra, come si dice, tradizione e innovazione.
Servire a capire, all’oggi, quanto la cosiddetta innovazione si sia poi fatta necessariamente tradizione (vedi il percorso magistrale di Luca Ronconi) in quella contaminazione reciproca che è nutrimento per entrambe le “anime” della regia.
Capire, dunque – al di là del neocapocomicato, del teatro dei gruppi e dei dramaturg/registi – come stia la regia nel bel paese. Devo dire, o occhio e croce, che i lavori cui ho assistito fanno pensare ancora bene.
I due spettacoli di cui sopra sono, in ordine temporale, Intrigo e amore, visto a Genova con la regia di Marco Sciaccaluga e Calderon, con la regia di Federico Tiezzi all’Argentina di Roma. Naturalmente non accostabili tra loro, guidati da due artisti dal background diverso, eppure entrambi frutto di consapevolezza, sensibilità, direi sapienza: mestiere, artigianato, arte che si fanno pratica scenica. Intanto, allora, vi racconto il primo, per il secondo vi rimando a un prossimo articolo.
Intrigo e amore è un testo poco frequentato del repertorio. Scritto nel 1783, ad appena 24 anni da Friedrich Schiller, risente di tutta la passione, lo slancio (e l’immaturità naturale) di un’opera giovanile. Come è per tutta la temperie romantica tedesca, a far da nume protettore è il Bardo: e qui, in filigrana, si possono leggere rimandi non solo a Romeo e Giulietta, ma anche a Misura per misura. La faccenda, infatti, è un bell’intrigo (del titolo) tra abusi di potere, malversazioni, corruzione e amori disperati destinati a finir male. Un polpettone, diremmo oggi, o meglio – per usare categorie più critiche – un melodramma, tanto che Giuseppe Verdi ne trasse spunto per il suo Luisa Miller. Nell’opera sono forti elementi a noi ormai estranei (o che tali dovrebbero essere!): una certa superstizione religiosa, l’autorità patriarcale, il valore assoluto del giuramento, la differenza di classe aspra e insuperabile – qui tra nobiltà e borghesia – che mina e rende impossibile l’amore tra i due giovani. Elementi che appesantiscono il messaggio dell’opera scagliandola inesorabilmente nel secolo di provenienza di un autore che avrebbe dato il meglio di sé in seguito, con lavori come I masnadieri o Maria Stuart.
Eppure, al di là della trama, che è appunto intreccio appassionato e addirittura commovente sul finale, con mille colpi di scena e sofferenze ineluttabili, quel che preme raccontare è l’operazione tutta teatrale.
Marco Sciaccaluga, con la scenografa Catherine Rankl, si inventa un contesto credibile e astratto al tempo stesso: sedie moderne di un’orchestra, con strumenti sparsi qua e là nell’enorme palco del Teatro della Corte, e al centro un pianoforte. Questo non solo perché un protagonista della vicenda è il musico Miller, padre dell’eroina Luise, ma perché lo spettacolo è un vero e proprio concertato. Ecco la chiave (e la sapienza) registica che si riafferma: la capacità di orchestrare attori-solisti. In questo caso il cast è notevolissimo, in ogni parte. A cominciare da Tommaso Ragno, che intelligentemente gigioneggia, facendo del suo presidente Von Walter uno Scarpia ironico e crudele. Poi, eccezionale, direi da premio, Andrea Nicolini, sinuoso e viscido segretario Wurm, che si prende il compito non facile di creare live le musiche non solo al piano ma anche con altri strumenti: è narratore, scandisce i cambi di scena, ma è magnetico co-protagonista negativo.
Viscerale e appassionato è l’innamorato Ferdinand, figlio del cattivone, interpretato con slancio e adesione da Simone Toni. E poi ci sono le protagoniste femminili: notevole, davvero, è la Luise di Alice Arcuri, gracile e decisa, vittima ma orgogliosamente libera nelle sue decisioni. È intrigante ritrovare lo stile recitativo della “scuola genovese”, che abbiamo apprezzato in attori del calibro di Binasco o Dini, sul bel viso di questa giovane interprete: è un bel “marchio di fabbrica”, che Arcuri però porta a piani emotivi ulteriori, forse più strazianti. Ma, si diceva, tutto il cast è notevole: bravissima Mariageles Torres, divina come Lady Milford; comico e patetico il maresciallo di Roberto Alinghieri; ottimi Enrico Campanati, Orietta Notari, Daniela Duchi e con loro Nicolò Giacalone e Marco Avogadro.
Dunque, nella coralità di questo evento scenico, si può ritrovare anche un senso teatrale forte: se la (ri)scoperta di Intrigo e amore non sembra poi così avvincente, pur nel lirismo e nella bellezza di certi passaggi poetici, nello scavo di certe contraddizioni e inquietudini del testo (la bella traduzione è di Danilo Macrì), resta il segno scenico di un lavoro che ha un respiro forte, netto, arioso. Il concerto di una raffinata orchestra d’attori e attrici, guidati da un direttore che conosce a menadito la partitura e sa renderne sfumature, stile, sottotesto.
Vi par poco di questi tempi?
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