Il teatro sociale è la nuova ricerca?
Già la definizione mette in difficoltà: quella acquisita dice “teatro di iterazione sociale”, e la dobbiamo alla mente illuminata di uno storico del teatro quale fu Claudio Meldolesi. Lungi da me mettere in discussione il magistero di Meldolesi, cui dobbiamo tantissimo, ma la preziosa definizione forse oggi non è più sufficiente a definire un mondo vario, ricco di possibilità e ipotesi di “teatri” diversi, difficilmente inquadrabili: perché questo teatro è andato, sta andando, molto oltre l’iterazione.
C’è chi parla chiaramente di “teatro sociale d’arte” a indicare un’innegabile evoluzione qualitativa – in termini di ricerca e esiti scenici – di tutta quella teatralità che si colloca in contesti sociali e spaziali “altri”, non convenzionali: per intenderci, nelle carceri, ospedali, centri di igiene mentale, e in molti altri luoghi dove si elaborano percorsi creativi di indubbio interesse che spesso invadono anche gli spazi deputati e consolidati.
Al di là della tensione “riabilitativa” o socializzante, allora, questi lavori hanno assunto – lo sappiamo da tempo – davvero i canoni di un teatro prestigioso e toccante. E dai territori del “disagio” arriva sempre più forte una spinta innovatrice della scena, che può piacere o meno, ma di fatto sta cambiando ulteriormente i “non-canoni” del teatro italiano e internazionale. Sembra assodato, anzi, che il “teatro sociale d’arte” abbia rinnovato, e stia ancora rinnovando, la stessa ricerca teatrale. Vale la pena ricordare che Claudio Bernardi, nel suo libro dedicato al “teatro sociale” indica tra le fonti non solo le spontaneismo del teatro di base, l’animazione anni Settanta, la drammaterapia, ma anche, acutamente, il “teatro del coro” di Mario Apollonio e il Piccolo Teatro di Giorgio Strehler con la sua apertura alla città.
Ed è curioso – questa almeno è una mia sensazione – che una pratica scenica nata dall’avanguardia, che metteva in discussione il “teatro di regia”, si sia evoluta paradossalmente in un “nuovo teatro di regia” (consentitemi la definizione grossolana) in cui maestri di grande talento lasciano un segno indelebile, lavorando con “non-attori” proprio come i padri fondatori lavoravano con i “dilettanti”. Basti pensare, per citare solo alcuni dei tanti, al percorso di Armando Punzo – il nome eclatante – o a quello di Sandro Garzella con la compagnia Animali Celesti, o ancora dei Babilonia Teatri, che vengono insigniti del Leone d’Argento alla Biennale Teatro 2016 anche per il lavoro fatto con la Casa dei Risvegli e l’Associazione Amici di Luca per i risvegliati dal coma.
Insomma, mi affascina pensare che in queste esperienze diffuse e articolate stia ribollendo una prospettiva teatrale con cui fare aspramente i conti, che richiede nuove forme di ricezione critica, che implica non solo e non tanto una attitudine socializzante e riabilitativa quanto la dichiarata possibilità di ridiscutere aspramente il sistema creativo in Italia (e altrove).
Sono discorsi già abbondantemente affrontati – basti citare le tante pubblicazioni accademiche, i nuovi Quaderni di Teatro e Carcere curati da Cristina Valenti per Titivillus o il pluriennale lavoro fatto da Vito Minoia con la rivista Catarsi – ma pensavo a tutto ciò a Bolzano, qualche giorno fa, ospite della Accademia Arte della diversità diretta da Antonio Viganò e abitata dalla Compagnia La Ribalta. Di questo gruppo, che affianca e affratella attori professionisti disabili e non, abbiano già dato conto, parlando dello spettacolo H+G (ne parlavo qui).
E volentieri ci torno, per raccontare Personaggi, un “precipitato” vivissimo dei Sei personaggi in cerca d’autore di Luigi Pirandello. Antonio Viganò aveva già allestito questo attraversamento del capolavoro pirandelliano con la compagnia francese Oiseaux-mouches, in una memorabile edizione. Fa benissimo a riprenderlo, oggi, e a tenerlo in repertorio, con una nuova e modificata versione. Spettacolo vibrante, nella sua scarna essenzialità, in cui il dettato sulfureo e metaforico della storia assume cogente attualità e verità. Sentire (vado a memoria) un giovanissimo interprete sussurrare una battuta chiave come “io non sono quel che sembro” – concetto chiave per Pirandello – svela e rinnova il senso del testo. E sono bravi, ciascuno a suo modo, nel disegno generale, i componenti il gruppo, che voglio citare: Michele Fiocchi, Rodrigo Scaggiante, Daniele Bonino, Lorenzo Friso, Maria Magdolna Johannes, Michael Untertrifaller, Mathias Dallinger, Melanie Goldner.
Ma la regia di Viganò è pregnante e delicata al tempo stesso non solo nella lettura del testo: allestisce infatti un contesto coreografico forte e specifico per quelle fisicità (le coreografie sono nientemeno che di Julie Anne Stanzak), all’interno del quale incardina le aperture verbali che snocciolano un discorso (meta)teatrale in cui la questione forma/vita non è teoria, ma prassi e dolore quotidiano. La metafora dunque si fa denuncia, ma senza acredine o rivendicazioni: e lo spettacolo si svela sapiente rilettura e aggiornamento del classico, racconto certo non consolatorio né pietistico (tantomeno ricattatorio o retorico come accade altrove) di una realtà sfacciata che s’impone nella sua aspra evidenza ed è inaccettabile nella sua assurdità.
Lo diceva Pirandello, lo ribadiscono, oggi, gli attori e le attrici dell’Accademia di Bolzano. È innegabile: il senso del teatro è sempre più da queste parti.
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