Teatro
Il teatro e la critica: allargare lo sguardo oltre i confini
La Fondazione Paolo Grassi di Milano ha organizzato un bel convegno, gli scorsi giorni, dal titolo “Media e Spettacolo: Informazione ormai virtuale”. Tra i tanti, illustri ospiti, sono intervenuto anche io. Questo era il mio intervento, dove parlo di critica teatrale, di Europa, di barriere e di ponti.
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È un po’ lungo, spero abbiate pazienza. Ma avevo piacere di condividerlo, sperando possa dare adito a qualche risposta e magari a una piccola discussione.
Riprendendo un’antica maledizione cinese, il filosofo sloveno Slavoj Žižek ha definito “interessanti” i tempi che stiamo vivendo: tempi di transizione, di ridefinizione. Maledettamente interessanti, non c’è dubbio: non ci si può distrarre un attimo. Tempi violenti in cui anche l’Europa deve essere pronta ad affrontare le proprie contraddizioni, assumersi le proprie responsabilità con la necessità, ormai impellente, di entrare, anche grazie all’aiuto di ciascuno noi, in una fase diversa. Perché adesso, non solo per gli attentati di Parigi, è con la violenza che dobbiamo fare i conti.
L’arte ha sempre convissuto con la violenza – i concetti stessi di “arte”, di “patrimonio culturale”, sono frutto di coercizione, sopraffazione. E l’arte non ha mai cambiato, o quasi, il corso sanguinoso della storia. Eppure gli artisti, tutti gli artisti hanno il dovere, l’onere, il privilegio di rendere meno odiosa la vita di ciascuno di noi. Anche sotto attacchi terroristici o bombardamenti a tappeto.
Mai come oggi, ciascun teatrante – in Francia, in Italia, in Siria, in Palestina, in Israele, in Iran, negli Usa, in Russia – ha il compito di tenere alto il livello di lucidità, di comprensione, di confronto.
E c’è una nuova responsabilità anche per la critica teatrale.
La critica teatrale ha l’obbligo di pensare le differenze, di aprire il proprio sguardo ad orizzonti ampi, non sempre garantiti. E di agire, assieme a chi il teatro lo fa materialmente, per rivendicare maggiore attenzione alla cultura, allo spettacolo dal vivo: perché qui si fondano ancora modalità possibili di stare assieme.
Nelle diversità, nelle tensioni, nel riconoscimento di culture spesso lontanissime ma non per questo incompatibili, il teatro può dare la voce all’Altro, superando l’ennesima chiusura del “noi/voi”, a qualsiasi livello. La sfida, dunque, è allargare lo sguardo, è ampliare sempre più il pubblico, continuare a occuparsi dei bambini, trovare nuovi interlocutori, comunicare e non mostrare, incontrare e non esibirsi: rimboccarci le maniche, con rinnovato entusiasmo e determinazione. È questa la battaglia del teatro.
Attorno a noi sembra tanto lo sconforto, la rabbia e desolazione. Viviamo un teatro sospeso tra generosi tentativi di rilancio e (auspicabili) prese di posizioni, tra ricorsi al Tar – rispetto alle decisioni prese in sede ministeriale – e commenti feroci, tra entusiasmo preventivo e faticosa sopravvivenza. Quel che è più grave è che comincia a serpeggiare una vera disperazione tra gli addetti ai lavori, ormai vessati ovunque e disincantati a tutto. In tanti hanno voglia di mollare. Sarebbe un errore.Perché in questi anni interessanti dobbiamo invece rilanciare, ricominciare a discutere, a fare teatro a più non posso.
Eccoci dunque alla critica. La nostra critica a chi parla? Di cosa parla?
Pochi di noi hanno la forza e le economie per viaggiare, per andare all’estero. Nella povertà diffusa, si sta tornando alla critica locale, almeno questa sembra essere una tendenza: anche le testate on line hanno un rapporto di strana, particolare tensione rispetto al territorio di riferimento, sospese come sono tra bisogno di riconoscimento e ansia di apertura.
Eppure un grave e grande compito ci aspetta, in questa Europa, in questo mondo scosso da costante violenza. Dobbiamo provare, sempre di nuovo, a promuovere la cultura della differenza. Solo così possiamo superare le divisioni, le barriere, l’ignoranza.
Mi piace tornare a un testo di Stefanie Carp, a lungo dramaturg di Christoph Marthaler (nella foto: un momento di Das Weisse vom Ei/Une île flottante, Premio UBU 2015).
Partendo da un dato di fatto: nonostante tutto l’Europa esiste ancora. I valori che ci hanno spinto a creare l’Unione Europea sono fortunatamente ancora validi, non lo dimentichiamo. Ma. C’è sempre un “ma”, stavolta molti “ma”.
Per Carp, la visione italiana ed europea non dovrebbe essere, non può più essere, solo italiana ed europea: si tratta, semmai, di indagare continuamente i confini d’Europa, allo stato attuale di nuovo dolorosamente e aspramente chiusi.
Non accettiamo che l’Europa dei diritti, del welfare, dell’uguaglianza, e della cultura sia solo un grande Mercato, ovvero una Europa delle economie che adesso sta diventando una Europa delle armi. Non accettiamo che i diritti umani siano messi in discussione anche in Europa. Una prospettiva non possibile, in nome di nessuna “paura”.
L’Europa attuale segue linee politico-economiche ciniche, basate solo su valori economici, che rispondono a desiderata di potenti gruppi finanziari internazionali: se siamo stati in grado di abbattere le frontiere, di stabilire una unica moneta, di stabilire una politica comune, oggi assistiamo al ritorno di una visione colonialista, che esclude grandi fette di popolazione dall’accesso al sistema educativo, sociale, previdenziale. Assistiamo, spesso impotenti, al ritorno del razzismo e del nazionalismo, il divampare del nazismo in Ungheria, Polonia, Svezia, Norvegia, Italia…
Allora cosa è il Teatro, cosa è la critica in questo contesto? Cosa sono e cosa fanno le istituzioni culturali, ivi compresi i nostri teatri Nazionali o Tric?
Sono club esclusivi, per una minoranza bene educata, medio borghese?
È evidente che non tutti possano accedere al teatro. A chi parliamo, dunque, quando parliamo di teatro? Che pubblico cerchiamo? Anche i cosiddetti spettacoli “partecipativi” – lo spettatore emancipato è la nuova frontiera – chi fanno partecipare? Chi è lo spettatore attento? Siamo sicuri, che questi spettacoli siano realmente partecipativi?
Proviamo a valutare quanto siano legati alla società reale e chiediamoci che punti di contatto ci sono tra gli spettatori – che so – del Teatro di Roma e gli abitanti di Corviale o del Centro Baobab minacciato di sgombero.
Apparirà evidente che anche la “partecipazione”, il coinvolgimento dello spettatore, si muovono su binari troppo spesso “protetti”, dunque “consolidati” che comunque di fatto “escludono” anche quando sono orientati alla più sincera inclusione.
Pochi, tra i nostri scintillanti Teatri Nazionali, pensano a percorsi culturali che guardino anche al confronto con le istituzioni culturali interazionali; di collaborazione e scambio di esperienze e conoscenze con altri paesi. Non mancano grandi e belle eccezioni, certo: come sappiamo esiste un teatro in prima linea, fatto di contaminazioni e di socialità; così come esistono numerosi network internazionali vivaci e strutturati, e ci sono rapporti più o meno stabili con alcuni paesi, segnatamente la Francia, o con altre nazioni capaci di intervenire economicamente per la promozione della propria produzione artistica.
Ma, in questo rinnovato e costante clima di emergenza internazionale, la critica dovrebbe spronare il teatro a far di più.
Senza dimenticare poi, come i critici sanno bene, che ci sono punti di conflitto irrisolti anche dentro l’Europa: non solo nelle note dinamiche sociopolitiche, ma anche dal punto di vista estetico, organizzativo, di linguaggio teatrale.
Come viene valutata una prestazione attorale in Inghilterra, Russia, Italia? Che ruolo ha l’attore, in contesti socioeconomici diversi? Quanto viene pagato un bravo interprete in Austria e quanto in Macedonia? Cosa possono dire gli attori bielorussi o ceceni e cosa possono dire gli attori spagnoli ai rispettivi pubblici?
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Parallelamente, assieme a questi gap, si sta sviluppando un “format”, uno standard europeo quasi unificato, che sembra allineare, formattare, l’estetica e la produzione – pensiamo alla lingua “intima”, intimista, alla narrazione emotiva e “privata” del performer europeo, così come l’abbiamo vista in Jan Fabre, Falk Richter, Jan Lauwers…
Le eccellenze del teatro europeo, insomma, e potremmo fare altri nomi, di altissimo che però non esauriscono la prospettiva internazionale. Del resto del mondo, chi sa qualcosa?
Manca pressoché completamente, o quasi, un confronto con paesi e artisti al di fuori dell’Europa. Maghreb, Mashreq, SudEst Asiatico, dell’Australia, chi ne parla? Chi ci racconta cosa accade in quelle zone del mondo, a parte il cinema?
La vera sfida oggi del nostro teatro sarebbe confrontarsi con la società e con i gravi, tragici cambiamenti in atto. Dunque considerare il mondo, al di là dei confini europei.
Il teatro extraeuropeo è spesso postcoloniale, dunque riflette appieno le contraddizioni di sistema. E però ha sviluppato forme, che possono essere considerate ibridi, tra retaggio europeo e visioni culturali altre. Oggi molte tendenze e nuovi formati arrivano da Sud America, Africa, Asia. Queste opere raramente approdano in Italia: abbiamo avuto ventate di autori dall’Argentina, così abbiamo scoperto il talento di Rafael Spregelburd o Claudio Tolcachir, ma altrimenti chi racconta quel che accade che so, in Oman o nel vicino Senegal?
Che ne sappiamo noi critici?
Dunque che ruolo ha la critica in questa prospettiva?
Dobbiamo la nostra “conoscenza” internazionale soprattutto a manifestazioni meritevoli e meritorie, a tre o quattro festival di caratura internazionali come è, per la capitale, il sempre straordinario Romaeuropa Festival, che regala alla città un respiro, una prospettiva che la libera dall’abituale provincialismo.
Oltre questi appuntamenti, noi critici, che siamo capaci di dedicare 10mila articoli a uno spettacolino di venti minuti, non sappiamo nulla di cosa succede a 100 chilometri dalle nostre coste. Non mancano eccezioni, ovviamente: ma mi chiedo se è normale. Basta studiare sui libri?
L’autoreferenzialità era insita, congenita, sin dalla tragedia greca: il teatro, lo sappiamo, crea o dovrebbe creare una comunità. E questo ancora oggi. Nonostante siamo in un tempo in cui il senso di comunità è stato continuamente ostacolato e spesso cancellato. A teatro ci riconosciamo – dovremmo riconoscerci – esseri sociali.
Il teatro, e con lui la critica, provoca domande, interroga sui nostri desideri, ci richiama alla responsabilità (in sala dobbiamo “prendere posto”), il teatro dovrebbe disturbare, parlare la lingua dell’altro: e dunque, come prima cosa, interrogarsi su quale comunità agisce.
Lo facciamo a sufficienza? O preferiamo, come sembra, non rischiare troppo? Ci autocensuriamo, giochiamo su terreni amici, di casa, ci parliamo tra noi. Anche questa riforma ministeriale sembra contenere un blando – nemmeno troppo – invito a una bonaria autocensura, incentivando il gradimento dei più, l’intrattenimento facile, l’obiettivo economico che per forza di cose fa evitare i rischi.
Sono tante, allora, le questioni aperte e non possiamo escluderne altre: quanto vogliamo essere esclusivi, quanto siamo élite?
In definitiva: a chi parliamo quando parliamo di teatro? E soprattutto di cosa parliamo? Quanti cittadini – in senso ampio – capiscono e sono coinvolti dal nostro linguaggio?
Il teatro dovrebbe assumersi oggi il ruolo di creare comunità “altre”, rinnovate, diverse da quelle abituali. Invece ancora preferiamo inseguire la poca borghesia sopravvissuta alla crisi economica o il piccolo mondo intellettuale.
Perché, artisti e critici, non cercano altre immagini, pensieri, suggestioni, gesti, che non siano condivisi dalla comunità abituale di riferimento?
In questi anni interessanti, siamo costretti a vivere, si diceva, nell’ansia e nella paura: come tradurre queste sensazioni in creatività, in azione critica?
Si tratta, infine, di mettere anche in discussione il concetto stesso di “rappresentazione”. Chi rappresenta chi?
In quanto testimoni e cronisti, addirittura giornalisti opinionisti, potremmo chiederci quale sia il legame tra rappresentazione e rappresentanza (ivi compresa, ovviamente, la rappresentanza politica: in un paese che da anni non ha un governo rappresentativo, regolarmente eletto, il nodo è piuttosto significativo. E per quel che riguarda il mondo del teatro, la questione – forse più semplice – è legata a un assunto: chi è autorizzato a partecipare alla festa rappresentativa?
Credo che tutti noi critici, al di là e oltre i media con cui lavoriamo, potremmo e dovremmo sistematicamente contribuire alla battaglia per passare dalla generica e irrisolta “politica culturale” a un serio “sviluppo culturale”, il che significa parlare con tutte le persone consapevoli dell’attività culturale in senso ampio.
Già un intellettuale come George Steiner raccomandava alla critica di non stancarsi di creare connessioni: in un’epoca in cui la rapidità della comunicazione tecnica nasconde enormi e crescenti barriere ideologiche e politiche, per Steiner il critico può agire da intermediario e da custode. Il pensiero critico può e deve vigilare, evitare che il regime politico, qualsiasi regime politico, possa negare la libera espressione, possa costringere all’oblio, alla rimozione, alla deformazione di un’opera. Possa creare censure di qualsiasi tipo. E oggi la censura si riaffaccia inesorabile anche nel nostro mondo.
L’opera, il teatro, l’esercizio critico stesso sono espressioni di libertà. E in un’epoca di “scontri di civiltà” e di “barbarie” di ritorno, di fanatismi religiosi e di razzismi esplosivi, di intimidazioni sistematiche e di opportunismi servili, di furberie fatte sistema e di corruzione dilagante, la prospettiva critica è necessaria per creare ponti, reti, tenere aperte le linee di contatto tra le persone e le lingue.
Dice lo storico del teatro Georges Banu che la critica può «rompere le barriere del linguaggio a teatro». Attraverso l’agire critico si può ampliare la mappa della sensibilità, favorendo gli incontri, lo scambio, l’esercizio della curiosità e dell’ascolto.
Il confronto con il teatro non è scevro di conseguenze per il critico: leggere bene, chiedere bene, interpretare significa anche mettere a repentaglio la propria identità, cambiare il proprio mondo, la propria visione. L’azione critica può far superare quei pregiudizi di cui siamo infarciti: occorre, insomma, essere aperti al mondo, essere pronti al mondo attuale, senza sovrapposizioni o indicazioni. Ponendosi e ponendo domande, incessantemente, al di là delle verità inutili e delle menzogne: cogliere le molte dimensioni del presente attraverso il teatro, non accontentarsi della facciata, di ciò che appare, di quel che sembra, di quel che ci dicono.
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