Tre novità editoriali potrebbero aprire un interessante dibatto.
La prima è un libro, la seconda è un articolo on line, la terza sono quattro pagine sull’Espresso, in apertura di una discussione che è continuata anche nelle settimane successive. Vediamo come metterle in fila, perché il tema – più o meno comune – è quello del ruolo degli intellettuali in Italia oggi, ossia, provo a chiosare e rilanciare io, il ruolo dei critici.
Cominciamo dal libro: è uscito per le edizioni Mimesis Il teatro lancia bombe nei cervelli, un agile e appassionato volume curato con sapienza da Fabio Francione e dedicato al Gramsci critico teatrale. Oltre al dettagliato saggio introduttivo, il volume raccoglie una serie di scritti del futuro fondatore del PCI, che, come forse è noto, si dedicò all’attività di critico teatrale dal 1915 al 1920. Gramsci come Piero Gobetti, poco dopo e assieme, diede grande importanza a quanto accadeva sui palcoscenici torinesi. Là, in quelle platee gremite, Antonio Gramsci mettere alla prova il tessuto sociale, la drammaturgia, l’estetica e l’etica del paese che aveva di fronte. Scrive Francione:«si può scorgere dal Gramsci maggiore, un pensatore minore che fa della sua passione per il teatro un mestiere e un prospetto di discussione e confronto al pari delle ricerche glottologiche e linguistiche presto interrotte che torneranno prepotentemente alla ribalta durante la riflessione carceraria. Dunque un Gramsci minore ma non per questo più piccolo e incapace di far andare oltre la sua esistenza le sue intuizioni».
Insomma, come è chiaro in tutto il mondo e meno da noi, gli studi Gramsciani, magari non filtrati dalla censura di partito, schiudono orizzonti sempre più vasti. Dunque, merito a Francione per aver ripreso questo indimenticabile “critico”. Nelle belle recensioni pubblicate, c’è un passaggio in un pezzo, quello relativo a uno spettacolo oggi dimenticato – Anfissa di Andreieff, vista al Carignano il 14 novembre 1920 – in cui Gramsci prende una posizione per noi utile. Scrive infatti: «Confessiamo però che il pubblico borghese del teatro non era dei meglio adatti a seguire e sentire l’opera d’arte. L’intiera verità di essa doveva purtroppo fargli l’impressione di un pugno sullo stomaco (…) Auguriamo dunque a questo dramma un pubblico migliore, più rozzo, più immediatamente sincero, più vicino a godere e soffrire l’impetuosa angoscia della tragedia. Gli auguriamo un pubblico di proletari».
È uno dei momenti in cui il critico anticipa quel che oggi è di gran moda, ossia la teoria della ricezione. Insomma, uno sguardo critico strabico, che da un lato punta al palcoscenico, dall’altro studia le risposte del pubblico. In tempi recenti, lo spettatore è diventato, e ancor più sta diventando, il “cardine” della pratica teatrale. Complice anche il sostegno (economico) Europeo, la “formazione dello spettatore” è materia e prassi su cui si stanno cimentando in tanti. Pratica encomiabile, naturalmente, ché sempre di pedagogia si tratta, ma che, al tempo stesso, lascia aperta qualche domanda su cui vale la pena riflettere.
Accade, infatti, che – almeno da noi – siano spesso proprio dei critici a occuparsi di formare il pubblico. (Avvertenza: chi vi scrive non è esente da questa attività, anzi! Sono stato chiamato spesso a far “lezioni” per il pubblico o workshop).
La cosa curiosa è che, di fatto, questo “settore” stia diventando un terreno di lavoro sistematico. Lo racconta bene Sergio Lo Gatto, sulle pagine di Alfabeta2 il 28 gennaio 2018 – ed ecco l’articolo di cui voglio parlare .
Lo Gatto, con il gruppo di TeatroeCritica.net (giovane e gagliarda rivista on line dedicata al teatro), è molto attivo in fatto di “formazione del pubblico”: fanno laboratori praticamente in tutti i teatri di Roma e non solo. Partendo dalle posizioni del filosofo Jacques Rancière, e riferendosi alla crescente domanda di formazione e al diffuso bisogno di comunità, Lo Gatto scrive: «A rispondere, in Italia, a entrambe le esigenze – quella istituzionale e quella comunitaria – è, negli ultimi anni, un fenomeno piuttosto organico, un movimento che sta provando a organizzare una risposta attraverso una molteplicità di metodologie, spesso legata a specificità territoriali (…) alcuni dei percorsi di formazione dello spettatore hanno come punto di partenza la pratica del pensiero critico». E cita i casi di TeatroeCritica, dell’ottimo gruppo Altrevelocità di Lorenzo Donati e altri a Bologna, della vivacissima e coltissima redazione di Stratagemmi di Milano con Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti e altri, assieme antesignani del settore (aggiungo volentieri un’altra compagine che produce un giornale on line: IltamburodiKattrin).
Continua Lo Gatto:«I format sviluppati da questi gruppi hanno in comune un’impostazione critica di base. Proprio la questione della relazione appare centrale: tutti sono impostati come percorsi collettivi in cui i formatori guidano un gruppo di partecipanti nella visione di un programma di spettacoli (la cui selezione mira a mostrare la molteplicità dei linguaggi del contemporaneo) attraverso incontri preparatori, con domande chiave attorno a cui sviluppare delle riflessioni sulle funzioni del teatro, e produzione di materiali di restituzione (…) Nelle varie declinazioni si ritrova un comune approccio che si potrebbe definire di “critica applicata”, un tentativo di formalizzare non un programma didattico frontale, ma un tipo di discussione mirato a condividere, tra formatori e partecipanti, certi strumenti di analisi e di elaborazione della visione, replicando dal vivo il processo di ragionamento speculativo su cui si fonda la critica delle arti…».
Il saggio prosegue con altre osservazioni, ma mi fermo qui per tirare una prima somma: i critici sono chiamati dalle strutture teatrali, dalle scuole, o da altri enti per spiegare, illustrare, preparare. Applied Critic, appunto.
Tutto bene, benissimo! Sono iniziative meritorie e meritevoli, soprattutto perché fatte con passione, competenza, entusiasmo, generosità (e quasi mai adeguatamente retribuite). Però. Ci sono dei però. Tralasciamo le domande banali: a chi si rivolgono? Solo a una minoranza borghese e occidentale di futuri spettatori? Perché? Per far comprare abbonamenti? Per far applaudire gli spettacoli di ricerca? Eccetera eccetera. Le risposte qui possono essere facili.
Resta invece irrisolto il problema iniziale, ossia quello del ruolo dell’intellettuale e dunque del critico. Insomma: il dubbio che comincia a rodermi è che, quando facciamo “formazione”, non facciamo critica. Le due cose sono diverse, per ambiti, attitudine, scopo.
In un bell’articolo (ed ecco il terzo pezzo di cui parlare) Marcello Fois scrive sull’Espresso dello scorso 11 marzo: «L’intellettuale non può deontologicamente essere simpatico al potere in corso. Mi spingerei fino a dire che uno dei compiti dell’intellettuale è di rappresentarsi, in automatico, come antagonista (…) Gli intellettuali hanno l’onere di spiegare che la linea del consenso, ai fini dell’incidere sul proprio tempo, è assolutamente ininfluente».
L’articolo si intitola, significativamente, “L’intellettuale ha perso” e si incanala in un dibattito annoso, in cui si sono cimentati fior di studiosi e pensatori, e che forse muove proprio dal pensiero di Gramsci
Insomma, tutto questo per dire cosa?
Che il critico, in quanto intellettuale, deve o dovrebbe comunque conservare una alterità rispetto al sistema, qualunque esso sia. Porre domande anche quando è d’accordo, installare il dubbio come processore, distillare le credenze che formano anche involontariamente il consenso. Reagire al pregiudizio, va da sé: ma facendo in modo che non se ne instaurino altri. È difficile contrastare lo stereotipo con un altro stereotipo.
Il rischio che avverto, dunque, è improntato a una perdita di senso del pensiero critico. Nella stagione del pensiero semplificato – l’affermazione della Lega lo dimostra – conservare la lucidità che spinge a non accettare quanto ci viene detto (in modo suadente o violento) significa tenere aperta l’Alterità. C’è quel bel libro di Carla Benedetti, “Il tradimento dei critici”, che resta ancora come un monito. Accettiamo “cartelloni” più o meno mainstream, spettacoli più o meno ben fatti, li facciamo “nostri”, li spieghiamo, li veicoliamo.
Ma cosa succede, allora, quando noi critici ci mettiamo all’opera solo per commentare, introdurre, presentare, promuovere, tradurre? Non siamo, già per questo, ossequiosi al sistema? Cerchiamo di svolgere il compito nel migliore dei modi, ovviamente. Ma non tradiamo il nostro, complicato e oneroso, ruolo critico?
È vero, fare critica oggi significa agire su molteplici piani contemporaneamente: per sopravvivenza oltre che per passione. Eppure all’orizzonte potrebbe delinearsi uno scenario in cui noi “critici” – per sincera adesione o semplicemente per necessità lavorative – ci spendiamo più in pratiche formativo-promozionali che non in quelle di analisi, valutazione e giudizio. Senza giudizio non c’è critica: magari narrazione, posizionamento, accompagnamento, pedagogia appunto. Attività fondamentali, che però non sono critica. Allora, qua, non vorrei tanto scadere nella lamentatio teatrale, né invocare una zdanoviana autocritica (che pure, ogni tanto, fa bene), nememno, infine, lanciar strali. Però, mi piacerebbe girasse qualche domanda: se non lo facciamo noi, lo specchio scomodo al teatro, chi lo fa? In parole povere: che senso ha fare il critico?
*
Immagine di copertina: LEAR, disegno di Daniela Dal Cin per lo spettacolo Lear, schiavo d’amore; una riscrittura di Marco Isidori del Re Lear di William Shakespeare; Regia Marco Isidori ; scene e costumi Daniela Dal Cin. In scena al Teatro Gobetti di Torino dal 3 al 15 aprile. Produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale / Marcido Marcidorjs e Famosa Mimosa. Per gentile concessione dell’Autrice
Devi fare per commentare, è semplice e veloce.