Teatro

Il peso inesorabile della colpa

21 Gennaio 2018

Liberarsi dal senso di colpa. A dirla così sembra facile. Poi, dietro, ci sono secoli di confessioni o decenni di analisi, di punizioni e assoluzioni, di frustrazioni e mortificazioni. La colpa assoluta, quella di esser nati, non si potrà espiare se non, forse, in una consapevolezza da acquisire nel tempo, nella serenità rinnovata o finalmente agguantata di una visione di sé e del mondo, che sia adulta, matura.

In questa chiave due spettacoli – diversi tra loro per approccio, modalità, esiti – hanno affrontato il tema della colpa con acume e serenità. La colpa, in questi casi, è quella nei confronti dei genitori: quel senso d’impotenza e responsabilità che sempre pesa sulle spalle di tutti i figli, nessuno (o quasi) escluso.

Lo scriveva, chiaramente, Kafka in quel doloroso capolavoro che è Lettera al padre: «Carissimo papà, recentemente mi hai chiesto perché sostengo di avere paura di te. Come al solito non ho saputo darti una risposta, in parte appunto per la paura che mi incuti, in parte perché a motivare questa paura concorrono troppi dettagli, più di quanti potrei in qualche modo tenere insieme parlandone». Troppi dettagli per raccontare quel timore reverenziale.

Non è fuori luogo scomodare uno dei capisaldi della letteratura per un allestimento, come quello visto a Bari dopo Natale, al Teatro Petruzzelli (rinnovato e tirato a lucido in tutto tranne che per l’acustica) ad opera del gruppo Vico Quarto Mazzini.

La locandina de I Karamazov

Compagine corsara e piuttosto dissacratoria, la compagnia degli attori e registi Gabriele Paolocà e Michele Altamura ha affrontato nientemeno che i Karamazov di Dostoevskij. Ne ha fatto una edizione mediata: mediata innanzi tutto dal punto di vista attorale, dal momento che i due registi si sono avvalsi, con scelta coraggiosa, di quattro interpreti da sempre protagonisti della scena amatoriale e comica pugliese, quali Dante Marmone, Nicola Pignataro, Tiziana Schiavarelli, Pinuccio Sinisi. Ricorda, un po’, quella geniale trasposizione de La Tempesta che Davide Jodice fece con i protagonisti della sceneggiata napoletana: un doppio salto mortale, tra “alto” e “basso”, tra vita e scena.

E, secondo livello, mediata drammaturgicamente (ad opera di Francesco D’Amore), traslando la vicenda originale a un dramma d’interno locale, ossia a un “quadro” di Bari vecchia – in cui non mancano slanci dialettali – che accade a trenta anni dalla morte del Padre. I protagonisti sono ormai invecchiati nel rancore e nella colpa, si rinfacciano sempre di nuovi i ricordi, cercano di chiarire tra loro il mistero di quell’uccisione. Di Dostoevskij resta un’eco lontana, una premonizione, un sentore di quel che impregna la vita di quei fratelli accuditi da una donna solerte e decisa. E i quattro non hanno via di scampo, se non la memoria, l’eterno ripensare al passato, al vissuto, ai propri guai e dolori.

Lo spettacolo, che si è avvalso del sostegno di Teatro Pubblico Pugliese, ha avuto il merito indiscusso di riempire il Petruzzelli di pubblici diversi (quelli che correvano in cerca della comicità degli attori, quelli che apprezzano la ricerca di Vico Quarto Mazzini, quelli richiamati semplicemente dalla maestosità del titolo) e dunque come operazione ha ben funzionato. Resta invece scenicamente un poco sospeso, almeno al debutto, in una sorta di limbo drammatico – cui non giovano le invadenti videoproiezioni che fanno da sfondo all’ambiente illuminato da Vincent Longuemare. Rimane, infatti, proprio appena accenato il dubbio del dolore, del sopravvivere nella colpa, di scivolare inesorabilmente in una tragedia (ma qui i giochi sono fatti, l’omicidio compiuto) in cui i nostri bravi attori pop e popolari sembrano non voler calarsi sino in fondo. Pur mutando pelle rispetto alla tradizione comica da cui provengono, i fratelli Karamazov tratteggiati da Marmone, Pignataro e Sinisi hanno valore semmai come evocazioni e non come reali incarnazioni di Alex, Ivan e Dimitri: e quel profondo senso di colpa dostoevskiano resta là, sospeso nell’aria come la colomba tante volte evocata, anche in proiezione, o come il cadavere del padre, celato eppure ancora incombente dopo decenni. Vico Quarto Mazzini giustamente e legittimamente cita Dostoesvkij solo come ispirazione: nel loro percorso di “tradimento” dei classici, dopo Shakespeare, Pirandello e Ibsen, i Karamazov è una tappa importante, ma li vorremmo – lo diciamo chiaramente – ancora più radicali, ancora più insolenti e dirompenti. Possono esserlo, basta affondare il coltello nelle piaghe (personali e letterarie) con maggior decisione.

Leonardo Maddalena e, in primo piano, Francesco Colella. Foto di Emanuela Giusto

L’altro spettacolo di cui voglio dirvi è Quasi Natale, della compagnia Teatrodilina, visto nella stagione del teatro Brancaccino di Roma. Gruppo spavaldo e delicatissimo, sensibile e creativo, Teatrodilina si cimenta con drammaturgie contemporanee, spesso cesellate sui corpi e le voci del gruppo stesso. Qui, il testo e la regia di Francesco Lagi evocano una situazione familiare non lontana da quella dei Karamazov. Due fratelli e una sorella si confrontano con l’imminente morte della Madre, figura forte, dalla quale è difficile staccarsi. Ogni personaggio ha le proprie fisime, le tare, i fallimenti, qualche speranza. Gli amori, le fughe, le convivenze, il lavoro: tutto è evocato, in un parlato (e recitato) che è intimo, quotidiano, sussurrato, serenamente semplice. C’è l’alberello di Natale che si illumina solo a tratti, c’è l’ospedale dove andare a trovare mamma, ci sono le camere da fare, le valigie da aprire. Le solite cose, le solite tracce di ogni esistenza: un po’ Giardino dei ciliegi, la casa d’infanzia, del paese, è lo spazio della memoria, dei ricordi inesorabili, dolci e spaventosi, delle battute, degli scherzi e dei problemi.

La vicenda è impalpabile eppure dolente, dolorosa: ma sono i sottilissimi fili che tengono uniti i tre fratelli, cui si unirà un’ambigua e misteriosa ragazza, a dare collante e struttura alla storia. E sono bravi, a volte bravissimi Anna Bellato, Francesco Colella (notevole la sua prova interpretativa, tutta in sottrazione), Silvia D’Amico e Leonardo Maddalena nel tessere colore e anima alla vicenda. Umilmente, senza prosopopea, più per non-detti che per affermazioni, sugellano questo spettacolo come fosse una serata tra vecchi amici, passata a chiacchierare, seduti a tavola, magari guardando vecchie foto con un bicchiere di vino. C’è qualche sbandamento nel testo – una deriva mistica un po’ pedante -, qualche scricchiolio nella messainscena e il finale (la scena finale) non mi è piaciuto, non sto qui a raccontarlo, ma mi è sembrato semplice e prevedibile: una soluzione che non rende merito a tutto il lavoro  dello spettacolo, il lavorio sottile di ingarbugliamento di quella matassa irrisolta che è la vita.

Il testo di Lagi lascia aperto, quasi fosse ancora tutto da subire e esplodere, il tema della colpa – che è stata o che sarà – da cui siamo partiti: ma questi personaggi non se ne sono liberati né, tanto meno, sembra potranno sfuggirne in futuro.

Quasi Natale è un lavoro toccante, con quel sapore amaro di sopravvivenza nella tragedia, di sorriso nella malasorte, di solidarietà nella misera che si incasella appieno nella tradizione della commedia all’italiana.

 

 

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