Teatro
Frammenti di Checov e Don Chisciotte all’Argot
Ancora gran belle cosine, al Teatro Argot Studio di Trastevere.
Ha una storia lunga e vivacissima, questo spazio: e a ripensarci, tornano in mente tanti, tantissimi artisti che sono stati “lanciati” proprio dall’Argot. Debutti di attori, attrici, drammaturghi, registi, che hanno presentato qui i primi lavori, trovando sostegno e ospitalità, per poi spiccare il volo. E proprio “Il folle volo” si intitola la garbata (auto)celebrazione che il teatrino romano fa nei trenta anni di attività. I Panici – Maurizio, e ora il giovane Tiziano – con i loro collaboratori continuano, non si fermano nonostante le (diffuse) difficoltà. E anzi rilanciano: così è stato per “Primavera Argot”, una mini-rassegna “performativa giovanile” che si è appena conclusa. Una start-up – come va di moda dire oggi – oppure un incubatore, o una “factory”, come si diceva fino a poco tempo fa illuminati sulla via di Warhol: di fatto, un spazio aperto alla scoperta, al rischio, all’investimento sul futuro.
Dei sei appuntamenti in cartellone (da Matuta Teatro a Mirko Feliziani, da Occhi sul Mondo a Marco Andreoli) ne ho visti solo due. E ve li racconto volentieri.
Il primo è Gioco di Specchi, testo di Stefano Massini, allestito con grande vivacità dal bravo Ciro Masella, anche in scena a fianco dell’ottimo Marco Brinzi. Due attori, dunque, che si inerpicano nelle fragorosa partita verbale – onirica, ironica, destabilizzante – allestita da Massini sul “mito” di Don Chisciotte. Assistendo a questo febbrile dialogo, che è un continuo oscillare tra incubo e realtà, tra ipotesi fumose e dissacranti verità, mi tornava in mente quel gioco strabiliante che fecero Carmelo Bene e Leo de Berardinis proprio attorno al capolavoro di Cervantes, ormai tanti anni fa. Nello spettacolo non c’è, fortunatamente, quella voglia dissacrante e destrutturante degli anni Sessanta, che si materializzava ad esempio nei cocci di vetro a terra, ma risuonano vive alcune domande. Chi è il folle e chi il saggio? Chi è Don Chisciotte e chi Sancho?
Sono forse interscambiabili, ancora e sempre, i due personaggi, nel corpo e nella voce dei due protagonisti: nella fluida e serratissima partitura di Massini, Gioco di specchi procede per spirali sempre più strette. È un avvolgente gioco al massacro, una partita a scacchi sulla identità e sulla paura della morte, sul desiderio e sulla libertà, che Masella e Brinzi – bravissimi nello spalleggiarsi e rilanciarsi – tengono teso fino allo stremo. Questo divertissement si dipana dunque come un trattato filosofico, un breve saggio sulla vita, la morte e sulla (in)consistenza umana alle prese con il deserto dell’essere, con il patire e il godere, con quella pura paura della perdita che tutto e tutti attanaglia. Tra ironia e grottesco, sul filo di una melanconia spesso non trattenuta, questi due esserini – umanissimi, al di là del mito – sembrano dire che non c’è speranza, se non continuare a sognare, e a giocare.
Altro appuntamento intrigante è stato quello con la compagnia Macelleria Ettore, che ha avviato, da qualche tempo, un lungo viaggio in quel mare bellissimo e infido che è Anton Cechov. Della grande “riscoperta” del drammaturgo russo avevamo già scritto: sono stati molti, quest’anno, gli allestimenti ispirati, tratti, dedicati all’autore del Gabbiano o del Giardino. Evidentemente, Checov parla ancora a noi di noi, svela i misteri confusi ed eterni dei nostri sentimenti e oggi, ancora più che mai, riverbera quel senso di spossatezza, fallimento, sogno, disincanto, desiderio d’amore, difficile sopravvivenza di cui siamo impastati e che meravigliosamente si dipanano nelle battute dei testi per il teatro e nei racconti. E proprio ai racconti ha guardato, con acume e umiltà, la regista Carmen Giordano, allestendo una notevole drammaturgia per frammenti, per evocazioni, per semplici situazioni emblematiche. Il lavoro presentato all’Argot prende spunto da una indicazione checoviana: Senza trama e senza finale. Dunque una narrazione che vorrei definire volutamente “senza scopo”, ovvero “semplicemente” evocativa, suggestiva, cesellata su delle microsituazioni – a volte solo uno scambio di battute, ritagliate qua e là dai celebri racconti – che sono la materia della vita. In un ambiente sospeso tra interno e esterno (un pratino finto, con qualche fiore, un lampioncino e poi divanetto e poltroncina da salotto) si muovono – o meglio stanno, per sempre privi di vie di fuga – i quattro personaggi. Due coppie, che si alternano nell’inseguimento costante della grande chimera: l’amore. Sono struggenti quadri di amori sfioriti, di passioni mai raggiunte, di incomprensioni totali. Il lavoro è ancora uno studio in fieri (debutterà al Festival di Castiglioncello a luglio) e la fase vista a Roma risente di un approfondimento ancora da compiere, non potrebbe essere altrimenti, soprattutto sui piani emotivi e interpretativi dei quattro pur bravi attori: Claudia De Candia, Stefano Pietro Detassis (già notevole), Maura Pettorruso e Angelo Romagnoli.
Serve, qua e là, un po’ più di respiro corale, un momento di ampiezza che possa sospendere la frammentazione estrema, il labirinto ossessivo del non detto e dell’irrisolto. Con l’invito a tagliare senza remore quelle “connotazioncine” inutilmente naturaliste, fatte di passetti da vecchio e faccette veriste. Eppure intriga di già, questo mosaico di vite lontane e presentissime, di esistenze buttate e di quelle rare “parvenze di felicità” che poi magari arrivano, si concretizzano, ma passano in un lampo. C’è tutto Checov, qui, ci sono i suoi sentimenti: uomini e donne alle prese con la vita. Quando si completerà la necessaria messa a punto, con il naturale lievito e l’assestamento dei passaggi chiave, Senza trama e senza finale passerà certo quella quarta parete ancora un po’ troppo spessa e lontana. Per arrivare dolorosamente al cuore di chi ascolta.
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