Teatro
Festival e spettacoli nella rete di fine estate
Come il teatrino costruito da Kostia sul lago, che resta abbandonato al vento e al freddo, dichiarando il fallimento delle “nuove forme” inseguite dal non-eroe cechoviano, così a Roma resta sul Palatino lo scheletro ingombrante di un teatro fallimentare, allestito per stupire i turisti con suoni e musiche e in fretta archiviato. Ma il “memento” di quel teatrone inutile e costoso, sul quale già molto è stato scritto e detto, che resta abbandonato e alluvionato nella sua vuota grandezza, simbolicamente archivia un’estate a Roma passata molto il fretta, tra ambizioni e disillusioni.
Per quanto afflitti dal caldo eccessivo, resta il languore di certe seratine d’estate, a guardar fuochi d’artificio come bambini, o a cercare stelle cadenti. Però l’autunno già incombe – e lascia spazio a vivaci manifestazioni come lo scintillante Romaeuropa Festival (che si apre il 20) o come Short Theatre già in corso. Proviamo dunque a incoraggiarci con i festival tardivi, settembrini, da frequentare con il maglioncino pronto all’uso. D’altro canto, il Festival d’Automne di Parigi è un modello interessante: al ritorno in città si trovano stimoli inattesi. Così, nella rete dei festival di fine estate, si imbrigliano lavori intriganti, prove curiose, che suscitano anche qualche entusiasmo.
La mezza stagione, insomma, esiste eccome!
E la rivendichiamo per un teatro in divenire, ambiguo, sospeso tra il sole accecante d’estate e le nebbie invernali. Un teatro che potrebbe non farsi ingabbiare, che brilla nella marginalità, che si insinua tra i moloch consolidati delle istituzioni più o meno ufficiali. Vorremmo primavera e autunno come momenti di riferimento di scene altre (e in parte lo sono già), come ambienti in cui trovare tutto ciò che non è passato nelle stagioni ufficiali e non è stato ancora scelto dai festival estivi.
Allora, ad esempio, ad Andria – per il Festival Castel Dei Mondi – gli instancabili Sacchi di Sabbia ritrovano lo smalto e l’ironia della propria ricerca artistica con I 4 moschettieri in America, presentato in forma definitiva. Dopo aver fatto un mezzo passo falso con Frankenstein, il gruppo pisano attraversa la vicenda degli spadaccini creati da Dumas con piglio sicuro, giocando brillantemente con le dinamiche del fumetto, del live painting, dei libri popup (meravigliosi), ironizzando sul sogno americano e Hollywood, mafiosi e ballerine, improbabili impresari di cinema o di pompe funebri.
Con un ritmo stralunato, fatto di accelerazioni e ampi respiri, i Sacchi di Sabbia danno anche un valore donchisciottesco alla vicenda: gli (ex) miti della letteratura europea si sanno tali ma si svendono al business made in Usa. Sperano di svoltare e di rinverdire le proprie speranze. Così si rivelano, sorprendentemente, come inatteso paradigma di una realtà più che attuale. Tutti quelli che cercano di star meglio – viaggiando, fuggendo, sperando di trovare “altrove” una serenità – sono proprio come quei quattro moschettieri: arrivano baldanzosi a New York per accorgersi che là è difficile anche morire. Riprendendo una vecchia parodia radiofonica degli anni Trenta, di Nizza e Morbelli, questo spettacolo, con la presenza viva del pittore Guido Bartoli, fa dei Tre Moschettieri di Dumas un fumettone esilarante, con i surreali testi e l’interpretazione di Giovanni Guerrieri in scena con Giulia Gallo e Giulia Solano.
Altrettanto interessante ma ancora da calibrare è Human Animal, il lavoro de La Ballata dei Lenna, ovvero Nicola Di Chio, Paola Di Mitri, Miriam Fieno, trio pugliese in gran crescita. Partono da un’idea molto intrigante: Human Animal è un viaggio letterario-antropologico su cosa possa voler dire essere umani. A far da bussola è l’ultimo libro di David Foster Wallace, Il re pallido. Il gruppo segue le tracce del racconto, ne reimpianta la storia che indaga sulle vite non illustri di tre impiegati qualsiasi dell’agenzia delle entrate.
Dopo aver visto – in una dinamica che moltiplica i piani narrativi usando il video e la ripresa in diretta, come oggi è tornato di moda fare – le vicende umane e professionali dei tre impiegati, svelandone meschinità e ambizioni, lo spettacolo prende una piega interessante. La ballata dei Lenna, infatti, prova ad applicare il metodo di indagine di Wallace a una realtà più vicina, andando a seguire l’esistenza (è realtà? È finzione?) di tre impiegati italiani, la loro giornata scandita da tempi e ritmi di lavoro. Qui si potrebbe aprire un mondo, e in effetti si avverte uno spiraglio di grande intensità: chiamando in causa anche con il pubblico, cui all’ingresso era stato dato il fatidico numerino taglia-fila, i tre attori danno voce a disagi profondi, a malesseri condivisi, a irrisolutezze eterne nel rapporto tra contribuente e impiegato, tra economia e umanità, tra sopravvivenza e esistenza. In epoca di crisi e di Equitalia, cosa vuol dire vivere? Chi sono, oggi, gli esseri umani? Su simili domande, lo spettacolo potrebbe dare la zampata finale, assestare il colpo dolente e doloroso, e invece La ballata dei Lenna sceglie di tornare sulla vita di David Foster Wallace, aprendo a una sorta di commossa apologia dello scrittore americano. Certo, è stato un gigante (e viene voglia di rileggerlo o leggerlo) ma focalizzandosi sulla scelta tragica di togliersi la vita dello scrittore, emblema di chi non ce l’ha fatta nonostante il “successo”, i tre attori/autori sterzano su un ulteriore piano narrativo che, almeno per me, giova poco allo spettacolo, facendo passare in secondo piano il bel lavoro fatto sino a quel momento. Human Animal, però, ha una sua forza, una sua inquieta febbre: crescerà.
Spostandosi più a sud, si arriva al Festival Alle radici dei gesti, organizzato dallo storico centro Koreja Teatro. Utilizzando vari luoghi della città, la manifestazione ha messo in fila spettacoli di rilievo. Una bella festa di piazza, con grandi e piccini – come si usava dire – affidata a un gruppo folle di Pupi-Paladini e di danzatori aerei ha aperto il festival con lo spettacolo di strada titolato I cavalieri erranti. Ci sono tracce di uno storico spettacolo di Koreja, il bellissimo Paladini di Francia, qui riadattato felicemente per il plein air, mentre a volteggiare, grazie a una solida gru, sono la sempre magnifica Elisa Barucchieri con il gruppo Res Extensa. Il pubblico, naso al cielo e sorriso stampato, si è lasciato volentieri divertire e incantare.
Nella serata che mi è capitata – oltre all’intensa ricostruzione del mito di Medea sulla strada all’interno di un furgoncino che gira per le vie più “oscure” della prostituzione in città, operata dal regista Gianpiero Borgia con l’ottima interpretazione di Elena Cotugno (ne avevamo scritto) – altri due lavori affascinanti.
Il primo sarebbe riduttivo definirlo semplice “lettura”: per quanto al leggio, un’attrice del calibro di Maria Grazia Mandruzzato, una delle grandi della scena italiana contemporanea, ha dato voce ad alcuni racconti tratti dai Sillabari di Goffredo Parise.
Quella scrittura amata, per il suo essere adamantina, solo apparentemente semplice, eppure incisiva, tagliente, aguzza, risplende freschissima. Ritratti privati, storie di bambine o giovani troppo in fretta cresciuti, anziane al limitar di vita: piccoli affreschi di vita in Italia (proprio come avrebbero potuto essere i ritratti “provinciali” de La Ballata dei Lenna), còlti a Venezia, o meglio al Lido, tra le brume invernali o afosi pomeriggi passati in spiaggia, come è per “Altri” il racconto che apre la selezione. Mandruzzato dà una sua visione, che si ferma sapientemente un istante prima dell’interpretazione: scanditi dalla vertigine bachiana di Glenn Gould, i quadri si incasellano alla fine in un video, soave proiezione di uccelli in volo, mentre l’attrice intona una vecchia canzone popolare veneta. Un piccolo incanto.
A me inquieta, invece, il lavoro magistrale, serissimo, ipnotizzante, di Claudia Castellucci. La fondatrice della Socìetas Raffaello Sanzio (ora semplicemente Societas) prosegue da tempo una sua ricerca profondissima, fatta di tecnica e rigore, di esercizi e studio, incentrata sul corpo. Percorso formativo dedicato ad allievi chiamati a muoversi un istante prima della danza, ossia in esercizi che non sono ancora coreografia, in movimenti che non sono ancora teatro o spettacolo. Il gruppo che ha lavorato a Lecce per Verso la Specie entra nerovestito, con austeri abiti dalla foggia antica, quasi medioevale, si muove lento per linee precise, salvo poi trovare modalità di scontro lieve, possibilità di errore. Le dinamiche procedono per rette orizzontali rispetto al pubblico, poi si infrangono in slittamenti obliqui, riprendono cerchi più ampi. Gesti che evocano movimenti forse contadini (la semina, il falciare), altri d’impianto più religioso, addirittura mistico. Il tutto affrontato con una serietà intensa, profonda, quasi punitiva. L’esito, dicevo, è ipnotizzante: su un flusso musicale continuo a base elettronica, è un rito di penitenti, una mortificazione del corpo che acquista senso e sostanza proprio – suppongo – nella pratica di introiezione del gesto, legato a una misura che nega ogni esplosione, ogni liberazione, ogni apertura.
Allora è proprio qui, per me, il lato inquietante: forse non ho capito, forse non ne so abbastanza, ma quel rigore così smaccato, da comunità di flagellanti, mi spaventa come una parata militare. La traccia del sabba si formalizza nel rito, pre- o cristiano che sia, da confraternita timorosa, eccessivamente disciplinata, da caserma o da convento, dove l’aderenza rischia di farsi escludente, distante. Ma è chiaro che qui, come per tutti i misteri, servono fasi di apprendimento, livelli iniziatici che non ho (e in definitiva non vorrei nemmeno avere).
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