Teatro
Festival Capitolo Due: Dominio Pubblico e la questione generazionale
La città agli under25 è il sottotitolo programmatico del festival Dominio Pubblico, ideato da Luca Ricci e Tiziano Panici, che punta al nocciolo di una delle tante questioni irrisolte del teatro italiano: il ricambio generazionale.
Giustamente Antonio Audino, sul Sole24ore, riflettendo sulla scena contemporanea, poneva al centro della sua critica la questione tematica, non tanto strutturale. E uno dei temi all’ordine del giorno è proprio “l’impossibilità di essere normali”, ossia la comprovata difficoltà di vivere in un paese per e di vecchi.
È un dato di fatto: l’età media dei “giovani” italiani è cinquanta anni o giù di lì. Se pure qualcosa sta cambiando nelle direzione dei teatri nazionali, l’adultità (teatrale) è un mito, un traguardo irraggiungibile. E la gioventù è diventata una categoria ministeriale. Ormai, un giovane artista non si presenta con le proprie visioni (magari rivoluzionarie) ma come “under 35”: categoria da sfruttare all’inverosimile, in nome di una malintesa pratica della novità a tutti i costi, dei debutti reiterati, della drammatugia “giovane per i giovani con i giovani dei giovani”. Il tutto, però, mediato da attempati signori che tengono ben salde le redini e le regole del gioco.
A Dominio Pubblico, invece, puntano non solo nel coinvolgimento diretto dei ragazzi e delle ragazze nell’organizzazione e nelle scelte, ma anche sulla formazione di un pubblico giovane e attento, come peraltro accade in altre simili manifestazioni in tutta Italia.
Interessante, dunque, la prospettiva di questo festival che scaturisce proprio dal dare spazio e voce, concretamente, a chi non ha ancora raggiunto i trenta anni.
In certi casi, va detto, la giovane età è un’aggravante: spettacolini di corto respiro, pasticciati, mal interpretati, consolatori, sono all’ordine del giorno. Però ci sono bei segnali di un teatro destinato a crescere, aspro, diretto, che ingaggia un corpo a corpo sincero con stilemi, modalità, codici davvero nuovi. È l’eterno mito di Kostia, delle sue nuove forme dileggiate dalla “grande” Arkadina nel Gabbiano di Cechov.
È insomma lo scontro generazionale, a tutti gli effetti. E sarebbe ora che la questione fosse davvero affrontata di petto, senza accomodamenti o mezze soluzioni.
Dell’edizione 2017 di Dominio Pubblico, che ha pacificamente invaso gli spazi del Teatro India di Roma, grazie a una virtuosa collaborazione con lo Stabile capitolino, ho visto solo il lavoro di apertura, che però mi sembra emblematico di tutti questi ragionamenti.
Si tratta di La rivoluzione è facile se sai come farla, del gruppo Kepler452, diretto da Nicola Borghesi, anche in scena con Lodo Guenzi e Paola Aiello. Lodo è autore delle musiche, firmate dal gruppo Lo Stato Sociale, ben noto nel mondo musicale indipendente.
Cosa è, dunque, questo spettacolo? Si tratta di un adattamento di un testo dell’altrettanto noto scrittore e giornalista Quit the Doner (ossia Daniele Rielli). Insomma, figure di punta della cultura underground (tra l’altro, anche organizzatori del Festival Venti/trenta di Bologna).
Quelle che portano in scena sono storie minimali che si intrecciano, frammenti di vita bolognese (e comunque provinciale) di un aspirante romanziere in crisi con il padre, di una drammaturga lesbica molto determinata, e di un terza figura, factotum e narratore, che di volta in volta si muta in altri personaggi della storia. Amplificati (purtroppo non benissimo), i tre attori si tengono sempre un passo indietro rispetto all’adesione ai rispettivi personaggi: interpretano rimanendo se stessi, com’è caratteristica ormai chiara di tanta scena giovane e performativa. La cosa interessante, qui, è che c’è un racconto, una narrazione vera e propria: le storie arrivano tutte a una fine, tutto è detto, quasi con una morale, con messaggi chiari, sia esistenziali che politici. Ci troviamo di fronte a una generazione – se vogliamo far assurgere lo spettacolo a manifesto generazionale – che indaga se stessa e i propri limiti o le proprie possibilità.
Una generazione che ha le idee chiare, espresse da artisti che hanno un seguito (e il pubblico di India lo dimostra), che se ne fregano della tradizione teatrale propriamente detta, ma anzi mescolano, inventano, scartano di fianco non appena le cose diventano troppo classiche. C’è molta ironia, molte “macchiette” (i dialetti non mancano), e una prospettiva precisa di rivendicazione o addirittura di rivoluzione: parola grossa che viene usata con consapevole leggerezza. Si tratta, per loro, di riprendere la voce in questa Italia vecchietta e cinica, di ritrovare valori ed entusiasmi, slanci e essenzialità al di là, oltre, le solite consunte parole. Insomma: un riscatto dalla frustrazione, che arriva come messaggio chiaro, netto, a chi ascolta. Questo è l’elemento interessante per chi come me, innegabilmente di un’altra generazione, trova certi segni e certe soluzioni sceniche semplicistiche, ammiccanti, addirittura banali. Simili scelte registiche e interpretative sono immediatamente recepite, capite, riconosciute dal pubblico (giovane) di riferimento. Lo spettacolo, allora, funziona al di là, o proprio per, i propri difetti.
Si è abbassata la qualità? Non so: forse è cambiata, o sta cambiando, l’idea stessa di teatro. Eppure sempre di teatro si tratta, e questi “giovani”, anche sono star in altri settori, scelgono la scena e la forma drammatica per le proprie esplorazioni artistiche e per comunicare al proprio pubblico.
Allora, se una lezione possiamo trarre da tutto ciò è che non dobbiamo arroccarci nella nostalgia del “quanto era bello il teatro di una volta”. Il teatro esiste ancora, si evolve, cambia, si adatta e continua a parlare a un nuovo pubblico. Fanno bene ad accorgersene anche i Nazionali, troppo spesso sepolcri imbiancati impermeabili a ogni barlume esterno: il Teatro di Roma che ha ospitato Dominio Pubblico (e non solo) e l’Ert di Modena e Bologna, diretto da Claudio Longhi che annuncia per la prossima stagione la presenza di Nicola Borghesi in una (ennesima) rilettura di Čechov: Il giardino dei ciliegi. Trent’anni di felicità in comodato d’uso. Staremo a vedere. Ma intanto felicemente salutiamo un mondo in ebollizione: il nuovo teatro esiste e non è solo quello degli anni Settanta o Novanta. Così come appare orami inaccettabile vedere, che so, settantenni che fanno personaggi ventenni o pensionati ancora alla guida di teatri o strutture pubbliche.
E, nell’attesa che ci facciano fuori tutti, seguiamo con curiosità crescente questi giovani artisti.
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