Teatro

Evviva la farsa!

23 Dicembre 2015

Quanto è difficile la farsa! E quanto è raro vederla ben fatta sulle scene italiane!

Sarà perché ormai è diventata appannaggio esclusivo della politica nazionale, che campa e fa campare guitti che nemmeno alla D’Origlia-Palmi se ne vedevano. Farse e farsacce quotidiane invadono dal piccolo schermo, divampano sui giornali, rimbalzano addirittura all’estero che neppure il Nerone di Petrolini sarebbe stato capace di scriverne.

Che se poi la farsa la indossano i nostri politici, a mo’ di canovaccio, noi, intanto, siamo diventati tutti seriosi e nervosi, e rischiamo di perdere la voglia di sorridere. Sarà, poi, che ormai il “comico” è diventato siparietto tv, con quei tre o quattro imitatori e caratteristi che non fanno ridere, ma di fatto il termine “farsa” è scomparso o quasi dalle tavole del palcoscenico per diventare termine d’uso comune, addirittura quotidiano, a contrassegnare situazioni che più che farsesche son grottesche.

Le belle, vecchie, gentili, farse di una volta non si vedono più. E invece a me quanto piacciono!

Va detto, poi, che sono difficili quei testi: apparentemente labili, sono “meccanismi” perfetti, che necessitano di ritmo, spensieratezza, capacità di gestire incastri e situazioni improbabili. La farsa, diretta discendente della Commedia dell’Arte, marchingegno inesorabile per smascherare le brutture del convivere (a)sociale, ha assunto toni feroci nel novecento, declinata come dissacrante contrappunto comico al mondo sublime e retorico del teatro borghese.

Dunque con piacerissimo salutiamo, in questa fine anno, il ritorno in scena di due testi emblematici della storia della farsa. Il primo è Miseria e Nobiltà, scritto a fine ottocento da Edoardo Scarpetta, più volte ripreso, anche al cinema da Mario Mattoli con Totò, Dolores Palumbo, Enzo Turco, Sophia Loren e Valeria Moriconi. Il secondo è L’albergo del libero scambio, scritta da George Feydeau poco dopo Miseria e Nobiltà, nella Parigi del 1894, quando la farsa scivolava già nel vaudeville.

Partiamo allora da Scarpetta, rimesso in scena, con un’operazione intelligentissima e divertentissima, dal bravo Michele Sinisi alla Sala Fontana di Milano, con arguta produzione Elsinor.

Miseria e Nobiltà, regia di Michele Sinisi
Miseria e Nobiltà, regia di Michele Sinisi

La vicenda la conoscete tutti, non fosse altro per quel travolgente film, con Totò che si mette gli spaghetti in tasca, eccetera eccetera: la pellicola è entrata nell’immaginario collettivo, è addirittura matrice, aurorale o archetipale, di declinazioni comiche successive in forma di citazione o parodie.

Sinisi affronta coraggiosamente il precedente vincolante, lo aggira – complice la ottima drammaturgia di Francesco M. Asselta – declinando il testo in una miriade di dialetti italiani, salvaguardando, però, il primato del pugliese madrelingua (di Sinisi, non della commedia che era tutta pregnatamente partenopea).

C’è il romagnolo, l’abruzzese, un napoletano appena accennato, il milanese: una babele linguistica che da un lato riconferma la matrice terrigna – dialettale appunto – della lingua scarpettiana, aggiornandola sornionamente all’oggi; dall’altro suggerisce un piano diverso di interpretazione. Se, infatti, l’elemento della “fame”, ossia la povertà diffusa quanto mai attuale, è appannaggio di chi con la propria terra ha ancora un legame (semantico) forte; dall’altro si può dire, seguendo Sinisi, che quella farsa, quella storia, è talmente consustanziale all’essere italiani che si può sfaccettare in lingue diverse mantenendo comunque immutata la carica empatica ed emotiva. Insomma, il “paltò di Napoleone” fa ancora ridere, che sia a Napoli, a Bari, a Milano o a Rimini.

Così è per la celebre scena della lettera. Nell’originale filmico è il noto “caro Vincenzo compare nepote”, che il villico detta a Totò. Qui Sinisi la nega e la evoca, in una fragorosa mise en abyme, attraverso le simili e successive scene di Benigni-Troisi o di Totò, Peppino e la malafemmina. Ma, si diceva, è l’operazione nell’insieme a essere scintillante.

Michele Sinisi, da bravo regista, si ritaglia un ruolo apparentemente marginale, quello di Peppiniello: lo fa parlare in un andriese incomprensibile e duro come un macigno e soprattutto gli dà il ruolo di sguardo “esterno”, di testimone e servo di scena, ma anche di artefice kantoriano della farsa che si monta in scena. Peppiniello-Sinisi osserva sorridendo incantato dal proscenio, a volte interviene – giocando con una botola/luce che cambia i connotati alla scena – entra ed esce dalla sequenza teatrale, svelando momenti di cruda verità, lividi come frustate.

Michele Sinisi nel ruolo di Peppiniello
Michele Sinisi nel ruolo di Peppiniello

Eppure si tiene quel tono leggero, divertente, commovente. Merito del cast, straordinario in ogni componente, in cui spicca specialmente Ciro Masella, da ricordare, che si destreggia ottimamente in coppia comica con un validissimo Gianni D’Addario.

Poi la potente e trascinante Diletta Acquaviva; Giulia Eugeni, ballerina mejercholdiana, e ancora Stefano Braschi, Gianluca delle Fontane, Francesca Gabucci, Stefania Medri, Giuditta Mingucci, Donato Paternoster.

Non mancano invenzioni che risolvono la scena egregiamente (scenografia di Federico Biancalani), come quel mare di maccheroni giganti che si riversano sul palco, e nei quali si tufferanno i protagonisti.

La scelta del finale è significativa: “fateci giocare”, “non ci rovinate la festa”, sembra dire il gruppo; fateci ancora sognare e commuovere con queste storie semplici e eternamente magiche. Che è un invito alla vita, ma anche ad un teatro popolare, condivisibile, immediato, fantasioso nella sua semplicità. Un teatro pronto a tornare nella abituale, quotidiana, e sempre più inaccettabile “miseria”, dopo aver fatto felice il pubblico.

Questo spettacolo è uno strappo significativo al modo di affrontare certi testi, è una idea robusta che si tramuta in sapiente invenzione scenica, è un gioco travolgente per ritmo e intensità. È un segnale, positivo, per il futuro: ridare senso profondo alla tradizione, inverandola nel nostro presente.

L'albergo del libero scambio, regia Marco Lorenzi
L’albergo del libero scambio, regia Marco Lorenzi

Parimenti affascinante, ma forse non altrettanto impeccabile, è la sfida che il Teatro Nazionale di Torino ha coraggiosamente consegnato al giovane Marco Lorenzi (classe 1983), regista della Compagnia Il mulino di Amleto, nata nel 2009 nella capitale sabauda.

Mettere in scena L’albergo del libero scambio di Feydeau è quasi più complicato che non affrontare Scarpetta. Non solo manca quell’immaginario condiviso cui bene o male è possibile appoggiarsi, ma Feydeau è il vuoto fatto sostanza, è l’apparenza mutata in verità, è il vorticoso gioco degli “equivoci”, ovvero “delle entrate e delle uscite”, o delle tre porte, che diventa fragile narrazione. L’albergo del libero scambio non parla di nulla, se non di frivolezze: coppie in crisi, tradimenti, tentativi di seduzione, promiscuità, “buon costume” e buone maniere. Insomma, spicce faccende da borghesia annoiata, in crisi.

L'albergo del libero scambio
L’albergo del libero scambio

Sul palcoscenico del Gobetti, Lorenzi è riuscito nell’impossibile: ne ha fatto una schitarrata punk, una giostra acida, esplosiva, che corrode sapientemente i cordoni del buon senso. Il gruppo ha saputo, in particolare, mantenere viva quella difficile “comicità per situazione” che è caratteristica della farsa. Inasprendo i caratteri, aggiornati anche nel linguaggio con sapienti e gustosi turpiloqui, portandoli quasi a macchiette pop del nostro tempo, Lorenzi usando al meglio la efficace  traduzione e l’adattamento di Davide Carnevali, ha trasportato tutto in un tempo sospeso, che però è quanto mai d’oggi, con architetti eccentrici e a la page, con design d’interni e mise accattivanti. Quasi che il teatro borghese di Yasmina Reza, con quel suo tratteggiare il lato feroce della borghesia, si impregnasse di Buñuel e sbracasse a un concerto ruvido dei Clash. Ne esce uno spettacolo divertente, che funziona egregiamente: si ride, e non poco, a inseguire le follie sopra le righe dei protagonisti. Il guaio di simili testi è che richiedono interpreti magnifici e precisione da orologini svizzeri (vedi Marthaler con Labiche) per far sì che quella schiuma di champagne depositi tracce di senso negli spettatori. L’albergo del libero scambio di Lorenzi ci riesce ma incespica a volte, si sgonfia, per la fragile gioventù di alcuni attori. Ma voglio citare almeno Alessandro Bruni Ocaña, Barbara Mazzi, Elio D’Alessandro, Silvia Giulia Mendola.

L'albergo del libero scambio
L’albergo del libero scambio

Sotto la Mole, qualcuno tra il pubblico ha alzato il sopracciglio perplesso, e non poteva essere altrimenti, visto che nel mirino è proprio la borghesia. Altri si sono letteralmente sganasciati dalle risate: una volta entrati in quel vorticoso albergo, non si può non ridere e di gusto, nel vederci spiattellati in scena, con i nostri tic, i vezzi, i perbenismi, le snobberie e le ipocrisie. Merito dunque al Nazionale torinese diretto da Mario Martone e Filippo Fonsatti: si sono presi un bel rischio, ma hanno fatto bene. Non solo abbiamo un nuovo Feydeau, non tradizionale e originale, ma possiamo affermare che la farsa c’è e lotta insieme a noi.

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