Ethica: Romeo Castellucci alla Biennale Teatro
Potremmo partire da qui: «Io intendo per corpo un modo che esprime in una certa e determinata maniera l’essenza di Dio, in quanto è considerata come estensione». Oppure da qui: «Dico che appartiene all’essenza d’una cosa ciò che, quando è dato, porta con sé l’esistenza della cosa, quando non è dato la esclude…». Ma le prime definizioni del secondo Libro dell’Etica di Spinoza sono una via ardua da seguire.
Meglio, forse, tenerle in sottofondo, come un rumore, come un brusio, come un basso continuo che fa da accompagnamento a slanci altri. Ma come riferimento imprescindibile, perché quel secondo libro si intitola “Della natura e dell’origine della mente” e da qui era partito Romeo Castellucci, nel 2013, per fare un workshop per attori alla Biennale Teatro. Il progetto del regista cesenate, ormai uno dei giganti della scena contemporanea, non è un mistero: ed è quello di affrontare tutti i cinque libri del filosofo olandese. Tornato in Laguna, per la Biennale diretta da Àlex Rigola, Castellucci ha presentato, in prima nazionale, la versione finalmente compiuta di quel primo studio di tre anni fa, con un esito folgorante, con il titolo di Ethica.
Dunque, l’evocazione filosofica iniziale è la prima suggestione su cui riflettere. Senza addentrarsi nei meandri della dimostrazione dell’esistenza di Dio (o della sua negazione), il punto nodale esplorato da Castellucci sembra essere la dialettica mente-corpo: Baruch Spinoza, nel suo rigore, pone in relazione i due aspetti, espressione della stessa realtà. Castellucci, da par suo, trasla in metafora i soggetti, ed evoca un dialogo tra una Telecamera (un corpo, che in scena diventa l’evidenza di un cane, un terranova nero, accaldato e curioso, che parla con voce umana e miagola come un gatto) e la Luce. La Luce è una donna (la brava, incisiva Silvia Costa), sospesa in alto, che si tiene in bilico a un cavo d’acciaio teso, solo con un dito. Sul punto di cadere, oppure miracolosamente resistente, la Donna-Luce resta in alto, vertiginosamente molto sopra la testa del Pubblico.
Il Pubblico – coro, gregge, umanità, oppure singole monadi, comunque in ascolto – entra nello spazio scenico attraversando una porta stretta, a forma di donna: una silhouette, tagliata nella parete, che costringe ogni spettatore ad essere nuovamente “partorito” nello spazio bianco della rappresentazione. Il dialogo tra Luce e Telecamera è allegorico, alto, aulico, evanescente, lirico: un dipanarsi ironico di domande e risposte che, nel bel testo scritto da Claudia Castellucci, assume i toni della parabola. E mentre si srotola la conversazione anomala – con quel cane parlante magicamente amplificato – e la donna che risponde e chiede a sua volta, di là dalla sagoma femminile intagliata nella parete, cominciano apparizioni. È la Mente, il terzo in commedia, il personaggio evocato che completa una suggestione possibile tra, parafrasando Jacques Lacan, Simbolico, Immaginario e Reale.
E se il “reale” è quel cane, ironica e materica parodia del nostro stare al mondo, il simbolico è la donna sospesa nel nulla, l’inconscio sono le apparizioni che si intuiscono nello stato embrionale, ovvero dietro la sagoma nella parete: esseri dapprima velati che passano, poi si mostrano come corpi bellissimi di fanciulle che si accartocciano, si sovrappongono, si intrecciano in un brulichio di gesti che compongono figure a metà tra l’animalesco e il più perfetto e conturbante erotismo. Poi dal quel grumo di corpi, sul finale, apparirà prima uno scheletro umano, infine una lunga ombra che si staglierà, sul finale, come misteriosa sagoma che lega i tre vertici di quell’astratto triangolo mente-corpo-luce con un effetto visivo davvero inquietante.
Ethica è breve, una quarantina di minuti, ma crea un tempo altro, sospeso, arioso e antico. Un tempo in cui si dipanano suggestioni potentissime, che catturano pur nella loro astrattezza, nell’evanescenza lirica di un linguaggio raffinato che lascia allo spettatore il compito di tessere trame e sensi. Così, ciascuno può leggervi il proprio mondo e il proprio vissuto. La mia lettura, allora, non può non risentire del mio “habitus”, come direbbe Bourdieu: risento, insomma, della limitatezza di una percezione che è anche smaccatamente maschile (ossia banalotta, grossolana).
In questa prospettiva non ho potuto non percepire l’allegoria come una descrizione di una possibile relazione di coppia, tra un uomo – ossia colui che guarda, la telecamera, l’animale – e quella luce simbolica che è la donna. Vi sono bellissime battute del testo di Claudia Castellucci che avallano una simile interpretazione, o quanto meno potrebbero essere usate come struggenti dichiarazioni d’amore assoluto. Ma, con un secondo passo, la chiave d’accesso potrebbe essere metafora della creazione teatrale, della relazione misteriosa tra l’Artista e la sua Intuizione, o folgorazione, cui fa da contraltare carnale il ribollente magma della mente.
Ci sono mondi in questa potente, asciutta, rigorosa forma teatrale: mondi ancora da esplorare, segni da decrittare, parole da intuire e tradurre. Ma resta viva la folgorazione di un incontro, di un dubbio che risuona ancora. “Solo ora che ormai non ci sei più, ci accorgiamo di te” dice Telecamera a Luce: come sempre, come nella vita.
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