Deflorian e Tagliarini: il mondo sotto questo cielo
A me pare, paradossalmente, che con il consueto acume Daria Deflorian e Antonio Tagliarini avessero previsto tutto. Ovvero la vittoria del No, le dimissioni di Matteo Renzi, lo scontro tra pseudoinnovatori e pseudoconservatori. Sembrerà strano, ma Il cielo non è un fondale – che ha chiuso con strepitoso successo la bella, lunga, articolata edizione del RomaeuropaFestival 2016 – per me è una sorta di trattato di sociopolitica.
Il cielo non è un fondale è già stato ben recensito (qui ad esempio Graziano Graziani per Doppiozero; qui Sergio Lo Gatto su Teatro e Critica ) possiamo dunque fare altre considerazioni.
Lo spettacolo, allora, parla schiettamente, amaramente, del disagio del nostro presente. Come in un saggio di Zizek, come in un romanzo di Annie Ernaux (autrice cara a Deflorian), qua i due artisti, insieme a Monica Demuru e Francesco Alberici, fanno una biopsia del presente, un lucido resoconto del reale, attraverso il Sé.
Mai come adesso, dicevo, sulla scia della romanziera francese, il racconto privato si fa collettivo. Nella mediazione tutta teatrale del testo detto, della dinamica scenica (una coreografia dell’immobilità, con i quattro che assumono continuamente posizioni statiche nello spazio) Il Cielo non è un fondale si muta in uno specchio implacabile del nostro essere continuamente fuori posto, a disagio con noi stessi e con gli altri. Un disagio “democratico”, di sinistra: di tutti coloro che vivono di cultura, di solidarietà, di uguaglianza, di empatia, addirittura di simpatia e che però, nonostante quei valori consolidati, introiettati, riconosciuti e difesi, poi si trova a dire e fare “altro”. Ed ecco, conseguente, il disagio.
Il nocciolo di questo bel lavoro, astratto e concretissimo, è proprio nello svelare quella che Malraux avrebbe detto “la condizione umana”: vorremmo essere solidali con il dignitosissimo venditore di rose, essergli anche amici, ma non è possibile. E la dignità dell’uomo immigrato diventa lo sguardo freddo e distante con cui ci sentiamo giudicati e – giustamente – condannati. Vorremmo pure essere “consumatori” modello, acquistare al supermercato le cose “giuste”, fare come tutti, essere come tutti: ma non possiamo, e ci smarriamo.
Lo smarrimento è la conseguenza del disagio e il contraccolpo è dietro l’angolo. Che può assumere le sembianze del rifiuto, della fuga, o di una improbabile teoria salvifica e umanitaria, calda come un termosifone, che però altro non è che il desiderio di condividere un nido qualsiasi, di tornare a uno stato embrionale, protetto. Una umanità bella e smarrita: perché sana, sincera, candida, eppure terrorizzata. Spaventata dal futuro? Certo, come potrebbe essere altrimenti?
Questi quattro personaggi sono tutti cittadini spersi in quello che Zizek chiama il deserto del reale: eppure quel deserto lo abitano (abitiamo) cercando disperatamente di non naufragare di fronte alla povertà, all’abbandono, al menefreghismo, all’opportunismo.
Deflorian e Tagliarini raccontano questo tempo, con lievità e acume.
Lo spettacolo vive di uno spazio vuoto nella scatola scomoda del Teatro India, tagliato sul fondo da una grande parete (il cielo che non c’è) e limitato, sulla destra per chi guarda, da un gran termosifone vecchio stile, di quelli di ghisa, attaccato alla parete: oggetto che si rivelerà, come accennato, protagonista del finale.
Poi sono i quattro attori a far tutto, a caricarsi sulle spalle il racconto e la spiegazione, l’immedesimazione o la distanza critica e dialettica necessarie.
Come consuetudine, la cifra stilistica di Deflorian e Tagliarini è pseudo-verista: ovvero sia gli attori non pretendono di essere altro se non se stessi. E forse, giunti a questo grado di maturazione e consapevolezza scenica, l’escamotage narrativo si rivela troppo stretto, addirittura stucchevole: il chiamarsi reiteratamente con i propri nomi di battesimo, all’inizio, suona ormai inutile. Rispetto agli spettacoli precedenti, non c’è forse più bisogno di quella legittimazione a parlare.
Anzi lo spettacolo vola quando subentra il “teatro”, quando ci sono situazioni (ancorché volutamente sospese) e racconti di grande intensità. L’incontro di Antonio con uno sconosciuto (impeccabile Tagliarini per presenza scenica); la deriva di una cassiera di supermercato (splendida Demuru); il racconto di Daria della casa umida in cui vive; il rapporto controverso tra Francesco e il venditore di rose (bravo Alberici) sono istanti – o istantanee – di grande teatro. Un teatro fatto sempre di semplicità e consapevolezza, di sapienza attorale posta con impalpabilità e discrezione, con un gusto unico per il candore e il sentimento.
Monica Demuru, la voce meravigliosa che si fa commento e contraltare lirico, dipana la sapienza popolare delle canzonette (Dalla, Battisti e altro) e dà compimento a questo spaccato metropolitano postmoderno: piccoli frammenti, dunque, stralci, lacerti di vite (proprie e altrui) in una vertigine che avvolge e lascia esterrefatti, come lo era Jack London di fronte ai barboni abbandonati nei parchi di Londra – evocati da un racconto intessuto con sapienza drammaturgica da Attilio Scarpellini.
Forse lo spettacolo acquisterebbe con qualche sforbiciatina qua e là, forse con un po’ più di stringatezza aumenterebbe di efficacia e si chiarirebbe meglio il senso profondo dell’operazione. C’è un rischio, latente, che quella voluta impalpabilità si faccia evanescenza se troppo rarefatta.
Ma c’è un gesto, un piccolo movimento che fa Daria Deflorian: inclina un po’ la testa, fa un sorriso tra l’imbarazzato e di scuse, amichevole, gentile. Accompagna il sorriso con un piccolo gesto della mano, con gli occhi che quasi si strizzano. È una pausa, tra un racconto e l’altro. Ma evoca, almeno a me, quelle strane e meravigliose smorfie autoironiche che Carmelo Bene sapeva fare, demistificando se stesso e il classico di turno.
In quel delicato istante, si compie il teatro di Daria Deflorian e Antonio Tagliarini. Una pausa, un gesto di chi, sorpreso, spaventato, educatamente si scusa del mondo.
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