Teatro
Dalla farsa alla tragedia il passo (borghese) è breve
Un sottile, stridente, senso di angoscia pervade la farsa: Une île flottante, pastiche di commedie fine ottocento di Eugène Labiche, nella lettura intelligentissima e raffinata di Christoph Marthaler, diventa una estenuante dissezione della fine della borghesia.
Il regista svizzero, Leone d’Oro alla Biennale Teatro 2015, magistralmente piega l’evanescenza comica dell’originale ad un grottesco, feroce, ritratto di un mondo che crolla da tutte le parti. Dopo un prologo velocissimo – in tre minuti gli attori ripetono tutto il testo, calando “in situazione” lo spettatore – il tempo dello spettacolo si sospende, si dilata, si avvolge in volute irrisolte, si spezza e si riprende in improvvise accelerate.
La scena è un interno millimetricamente reale, seppure volutamente straniante e sottilmente inquietante, disegnato come sempre dalla geniale Anna Viebrock: qui, tra poltrone e soprammobili, tra un’arpa mai suonata e grandi quadri alle pareti, prende vita una storia senza troppo peso.
Ci sono due innamorati, Emmeline e Frédéric, e i rispettivi genitori che si devono incontrare per celebrare le attese nozze. Niente (o poco altro) di più: le dinamiche della farsa sono queste, lo sapeva bene lo Scarpetta di Miseria e nobiltà.
Labiche fu autore di innumerevoli testi – ricordiamo tutti, quanto meno per sentito dire, Un chapeau de paille d’Italie diventato opera come Cappello di paglia di Firenze grazie a Nino Rota – in cui il meccanismo comico, di battuta e di situazione, era spinto al massimo al di là di ogni profondità o analisi psicologica.
Per Marthaler, però, la partitura testuale è uno spunto, un vero pre-testo, per allestire dunque l’implacabile affresco sociale. Ed è in quel tempo senza tempo, condito di abiti retrò anni Settanta, chen si muovono come in un acquario i personaggi, componenti delle due famiglie – l’una francofona l’altra tedesca – destinati a parlarsi senza capirsi. L’occhio sornione di Marthaler li segue empaticamente, guarda con affetto e comprensione alla bestialità gretta di questa umanità che siamo.
Ci sbatte in faccia i nostri interni piccolo-borghesi (pre-Ikea), le nostre aspirazioni di crescita sociale, le ambizioni artistiche, l’avidità, la retorica dei sentimenti, l’incomunicabilità, l’ottusità.
Suonano continuamente pendole e campane, in questo spettacolo, a segnare un tempo che non passa: è come se in un film di Bergman entrasse la rutilante borghesia buñueliana. Il surreale e l’assurdo s’incontrano con la più nitida e tagliente analisi esistenziale. Queste “maschere” umane, umanissime, fisicamente connotate eppure sfuggenti – dunque qualsiasi – si rivelano vere e proprie tracce di vita quotidiana, colte nella più normale esasperazione. Adulti-bambini immaturi, incapaci a tutto: alla vita o alla semplice gestione della pratica ordinaria, per cui attaccare una presa alla corrente può richiedere un quarto d’ora di (esilaranti) tentativi.
Marthaler smantella ogni tassello di certezza, slitta continuamente in un altrove sospeso e irrisolto, e la frequente risata del pubblico si muta, progressivamente, in una cupa, consapevole, disperazione intima, nello sfinimento emotivo di chi si sta specchiando senza pietà e non si piace per niente.
È una vivacissima opera musicale (con poche musiche, contrariamente alla prassi cui ci ha abituati il maestro svizzero) questa Île flottante, è un melodramma di passioni sperse eppure inseguite, in cui si aprono fenditure intime, quasi flussi di coscienza, con degli a-parte immediatamente cassati per eccesso di drammaticità. Marthaler ama spezzare, destabilizzare, demistificare anche attraverso segni contraddittori o intransitivi : un personaggio ha un serpente finto in tasca, che appare di tanto in tanto; un’altra ha le chiavi di una misteriosa cassaforte mai aperta; i quadri nascondono persone vere; il maggiordomo porta continuamente incomprensibili animali impagliati. Inutile chiedersi il perché.
Sono tracce disseminate qua e là per inquinare le prove, per far slittare il significato e il sentimento, o per puro divertimento. Ecco, la categoria più brechtiana che Marthaler ha fatto sua: il godimento. Per il regista svizzero il teatro non è certo teleologico, non è rito criptico da decifrare (tanto meno su piani letteralisti o narrativi), ma è gustoso gioco, da sfruttare al meglio in tutte le possibilità. E se poi lo spettatore vuol vedere nelle famiglie di Labiche, tra le righe, il possibile e disarmante incontro tra una qualche Merkel e un qualunque Hollande, è liberissimo di farlo. La farsa, si sa, occhieggia e non poco alla satira.
Quel che resta, comunque, nella notevolissima drammaturgia di Malte Ubenauf, e nello straordinario lavoro degli attori, è che questo piccolo-grande capolavoro di Une île flottante si sia dimostrato un dolce dal sapore assai amaro: ha il retrogusto della vita.
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