Teatro
Brecht, Stanislavskij, Sarah Bernhardt: libri da leggere (e studiare)
Mentre divampa il dibattito sugli affari di alcune famiglie incidentalmente e contemporaneamente impegnate anche nella gestione del governo nazionale, e mentre si svelano conti offshore con risvolti molto divertenti (se non fossero inquietanti assai), ho cercato consolazione in alcuni bei libri di recente stampa, ovviamente legati alla vita teatrale italiana e non solo.
Il primo è un’affascinante ricostruzione storica che fa ripensare a due anniversari importanti. Nel 1956, ovvero sessanta anni fa, se ne andava quel genio di Bertolt Brecht e nel 1966, cinquanta anni fa, per la prima volta il suo Berliner Ensemble sbarcava alla Biennale di Venezia. In mezzo, in quel decennio, c’è l’avvento dell’autore tedesco sulla scena italiana dovuto soprattutto a Giorgio Strehler e Paolo Grassi al Piccolo Teatro di Milano. La storia ufficiale racconta dell’incredibile successo della versione italiana de L’Opera da tre soldi, messa in scena alla presenza dell’Autore, che ringraziò con due memorabili biglietti.
Il primo a Paolo Grassi: “Signor Paolo Grassi, Lo spettacolo è magnifico, Molte grazie. Bertolt Brecht”; il secondo, naturalmente, al Maestro: “Caro Strehler, mi piacerebbe poterle affidare per l’Europa tutte le mie opere, una dopo l’altra. Grazie, Bertolt Brecht”.
Da quel momento, i fondatori del Piccolo lavoreranno alacremente per fare del teatro di Via Rovello la casa italiana di Brecht. Un lavorio inarrestabile, fatto di una infinità di lettere, di prese di posizione, di vere e proprie strategie ordite da Paolo Grassi per tenere saldo il primato (e l’imprimatur) milanese sull’opera del tedesco. Dietro gli spettacoli epocali firmati da Strehler, come l’indimenticabile Vita di Galileo o L’anima buona, infatti, ci furono vere e proprie battaglie per avere l’esclusiva sui diritti o, quantomeno per conservare quella “tutela artistica” che Grassi voleva riservare al Piccolo e a se stesso per controllare la diffusione italiana dei testi brechtiani. A ricostruire mirabilmente tutte le fasi di questa lunga storia è Alberto Benedetto, per conto dell’editore Mimesis, con il bel volume Brecht e il Piccolo teatro, una questione di diritti. Dimostrando che, come scrive Sergio Escobar, direttore del Piccolo di Milano, nella introduzione, non solo di diritti si trattava ma di “teatro” tout court. Di fatto, però, al di là del sincero afflato verso la qualità e la totale adesione del magistero registico strehleriano con la poetica di Brecht (almeno in quei ferventi anni) è divertente trovare, nelle lettere di Grassi, il piglio polemico e la strategia di chi non esitava a far di conto per il successo del proprio teatro. Dunque le schermaglie, anche aspre, con altri teatri e altri registi, a partire dagli stabili di Genova e Torino, le continue corrispondenze con l’editore tedesco Surhrkamp, titolare dei diritti; l’amichevole scambio di lettere e gli incontri con Helen Weigel, che dopo la morte di Brecht ne terrà alto il nome e la tradizione artistica.
Ma, mentre il Piccolo dedica una serie di attività all’anniversario (qui il programma) quel che affascina è leggere tra le righe di questo libro la proverbiale passione di Grassi, il suo non stancarsi mai, il suo insistere per far crescere il suo teatro. Stefano Massini, per chiosare il bel volume, scrive nella postfazione: “La lotta per aggiudicarsi i diritti di Brecht sta dunque ben oltre e ben più in alto rispetto al business di un prodotto che funziona: la posta in palio di questo a tratti buffo rodeo era il messaggio di un edificio straordinario da costruire insieme, senza farsi indietro, scrivendosi in fronte il proprio credo, fieramente, che questa è la nostra fede e ci gloriamo di professarla in nome del fatto che siamo sopravvissuti alle bombe su Dresda, ai crematori di Auschwitz e al fungo di Hiroshima (…) difficile non riflettervi ora che il desiderio d’Europa è un’aritmetica di spread, e il concetto stesso di società una somma di condomini”.
Un altro anniversario fa da slancio alla seconda lettura di questi giorni. Nel 1896, due anni prima di fondare, con Nemirovic-Dancenko, quello che diventerà il Teatro d’Arte di Mosca, il poco più che trentenne Kostantin Stanislavskij farà l’attore in un’edizione dell’Otello di William Shakespeare. Ne rimase insoddisfatto e continuò a pensare a quel testo che si muterà quasi in un tormento, in un rovello che lo perseguiterà ancora a lungo, almeno fino al 1926, quando la tragedia del moro di Venezia entrerà finalmente nel programma del suo teatro. Le prove iniziarono e si trascinarono a lungo, complice anche l’infarto che colpì il regista e lo costrinse a una convalescenza nel clima mite di Nizza. Da là, boccato in Francia per curarsi, Kostantin Stanislavskij scrive incessantemente al teatro, mandando le sue “note”. Dino Audino Editore ha il merito di pubblicare “l’ultimo copione” di Otello, le note di regia di Stanislavskij in quello che si rivela un appassionante, commovente, racconto. Quando si dice “la lettura del testo”: beh, molti giovani registi potrebbero cominciare da qua. Ci sono gli schemi, i disegni con i movimenti scena per scena, atto per atto, con ampi commenti, analisi millimetriche, dettagliatissime ipotesi, suggerimenti e chiavi di lettura; ci sono crocette e asterischi, che stanno per le pause brevi o lunghe; ci sono acute osservazioni su ciascun personaggio. Fino ad arrivare a quel sistema di “azioni fisiche”, quelle che il regista russo definirà «l’asfalto della pista da decollo di un aeroporto, senza il quale l’aereo-sentimento non riesce a sollevarsi da terra».
Nella bella e ampia prefazione, Fausto Malcovati, da par suo, ricostruisce il contesto storico, critico assai: «Il 1930, l’anno della prima di Otello al Teatro d’Arte – scrive Malcovati – non è un anno come gli altri. È l’anno della “grande svolta”. Stalin è al potere, ormai senza rivali. Trockij è stato definitivamente sconfitto, espulso dal partito, esiliato. Sono cominciati il primo piano quinquennale e la collettivizzazione forzata delle campagne (…) L’atmosfera al Teatro d’Arte è da tempo molto pesante. (…) il 5 settembre 1929, con un comunicato ufficiale la Direzione per le Arti (Glavisskusstvo) fa sapere che accanto ai due storici direttori, con uguali diritti, c’è ora Michail Sergeevic Gejct, un solido uomo di partito che li aiuterà e li “consiglierà” nella decisione del teatro…». E, come ricorda bene il prefatore, lo spettacolo andrà in scena pur non essendo realmente pronto: a poco, nella pratica, saranno servite le indicazioni del Maestro. «La prima viene fissata, senza avvisare Stanislavskij, per il 14 marzo. All’ultima generale assiste Stalin, alla prima è in sala mezzo governo (…) Viene notata l’assenza di Nemirovic, brutto segno. Lo spettacolo, nonostante i tagli, è lunghissimo (…) Solo dieci repliche, poi lo spettacolo sparisce dal cartellone». Chiosa Malcovati: «Questo Otello avrebbe potuto chiudere in modo esemplare il discorso Teatro d’Arte-Shakespeare, iniziato nel 1905 con Giulio Cesare (…) non fu così. Otello rimane un capolavoro solo sulla carta. Per un teatro che vive di spettacoli e non di pagine scritte non basta. Ma la magnifica lezione di Stanislavskij ai suoi attori non è andata perduta: eccola, oggi, con immutata forza».
Ancora un anniversario (certo più piccolo, ma altrettanto gradito) ha l’editore Cue Press a ristampare, giusto venti anni dopo, il divertentissimo e coltissimo Sarah Bernhardt, Colette e l’arte del travestimento che Laura Mariani, storica del teatro dell’Università di Bologna, tra le menti più lucide nell’analizzare il teatro “al femminile”, diede alle stampe nel 1996. Mariani intreccia le vicende della straordinaria attrice con quelle della scrittrice, che, in vita, si incontrarono una sola volta. Ma il substrato ampio e articolato di questa ricerca è proprio il “travestitismo”, che supera agilmente e spettacolarmente i confini tra vita e teatro. Tema importante, dunque, e di rinnovata attualità: mette a fuoco la complessa questione (anche psicologica) dell’identità in divenire, i risvolti sociali e quelli prettamente “teatrali”, ma tocca anche questione basiche come quelle di “vocabolario” del nostro teatro. Tra Feminist Theory e storia dello spettacolo, Mariani ricostruisce attentamente il travestimento femminile, partendo da una figura iconica come Giovanna D’Arco, passando per la grande tragica Rachel per approdare alla Garbo o alla Woolf e, naturalmente, alla Bernhardt: «la voce d’oro, la donna serpente, l’adolescente androgino, l’avventuriera, la bizzarra, l’eroica… queste definizioni, insieme ad altre, emergono dal fiume di carta che ha seguito le performance di Sarah Bernhardt: una scia luminosa e “densa di vapori” in cui il personaggio, con la sua provocatoria unicità, ha finito per offuscare l’attrice». Ed è bello seguire la studiosa mentre racconta analiticamente il mondo creativo della divina Sarah. Poi c’è Colette, l’autrice che “tra scena e scrittura” fra il 1906 e il 1912 praticò il travestimento, «frequentò donne che si abbigliavano da uomo, si esibì sulla scena en travesti, fu mima e ballerina di professione. Come Sarah Bernhardt, conquistò il consenso del pubblico soprattutto grazie alla sua esibita femminilità (ma) l’attività teatrale si intrecciò ai riferimenti femministi in un percorso che legava la ricerca di libertà all’elaborazione di un linguaggio proprio». Una lettura appassionante e divertente, sicuramente da non perdere.
Poi ho un altro libro bello da raccontarvi: il terzo volume di scritti di Jerzy Grotowski, edito da La Casa Uscher come i due precedenti, curato con passione e rigore da Carla Pollastrelli. Comprende testi dal 1954 al 1998. Ma questo devo ancora iniziare a leggerlo…
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