Teatro

Fra decreti e ricorsi, così il teatro italiano si avvicina al crac

2 Luglio 2016

Ma se un attore, un’attrice non stanno in scena, dove stanno? Che fanno?

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Se chiedi a un attore come sta, inevitabilmente ti risponde cosa fa. È tale e tanta l’unione tra l’essere e il fare, che il mestiere d’attore è una condizione dell’anima, della salute, della vita. Invece, in Italia, ci sono attori e attrici che, magari dopo mesi e mesi di prove, fanno una o due repliche dello spettacolo faticosamente allestito.

E poi? Poi aspettano. Non vivono. Senza soldi, senza tutele. Inventano, creano, progettano, studiano, si aggiornano: ma non vanno in scena.

La situazione, si comprenderà, è delicata.

Come se un operaio fosse in perenne cassa integrazione (per di più non pagata), e sta là, a guardare i cancelli della fabbrica. Di fatto, il sistema teatrale italiano sta colpendo, penosamente, gli ultimi: ovvero quelli che il teatro lo fanno sul serio. Si salvano, magari, i direttori, i manager adesso tanto di moda: ma loro no. Pagano lo scotto di un’organizzazione che è al punto di collasso.

Mai come in questi giorni, il teatro sembra al fallimento.

Avevamo dato la notizia dell’accoglimento, da parte del Tar del Lazio, di due ricorsi (su 120 in arrivo) contro il decreto di riforma del settore voluto dall’allora onnipotente direttore Salvo Nastasi. Ne hanno parlato Repubblica e alcuni siti specializzati.

Il decreto è stato dunque annullato (praticamente cancellato ex nunc), in tutte le sue applicazioni sin qui attuate.

Il che vuol dire, tradotto in soldoni, che sono bloccati i finanziamenti. Saldo 2015 e acconto 2016 non arriveranno. La questione può sembrare tecnica, in realtà è un terremoto che va a colpire l’intero settore spettacolo dal vivo, e – va da sé – a cascata travolge loro, gli attori, le attrici, i danzatori, i circensi…

Quel decreto scontentava tutti, ma è stato applicato lo stesso. Faticosamente, molto faticosamente, i teatranti si sono adeguati. Lo abbiamo raccontato: sono nati gli scintillanti Teatri Nazionali, sono nati i Tric, Teatri a rilevante interesse culturale; le nuove scuole; i centri di produzione, eccetera eccetera.

Una sistemata, si sa, andava data: il teatro italiano vivacchiava su un impianto decisamente vecchio e arrugginito. E anche per questo la riforma era stata, almeno all’inizio, incoraggiata e seguita. Anche perché conteneva alcune innovazioni auspicate e auspicabili: la triennalità, la multidisciplinarietà, una certa oggettività che toglieva (avrebbe dovuto togliere) il teatro dal capriccio del “principe” di turno.

Poi, però, ha fatto più danni che migliorie. Ora il Tar dice che quel provvedimento era totalmente sbagliato. L’aria che tirava era chiara, anche prima della sentenza: sono certo che il nuovo direttore generale, Ninni Cutaia stesse già preparando interventi per tamponare la situazione.

E intanto che si fa?

C’è chi dice: faremo ricorso al Consiglio di Stato. E chi invece suggerisce sottilmente che la responsabilità sia dei ricorrenti (ovvero Teatro dell’Elfo e Teatro Due di Parma), colpevoli – secondo alcuni – di non aver valutato bene (!) le conseguenze della loro “protesta”. Ora, a parte il fatto che il Tar ha dato loro totalmente ragione, mi chiedo: ma non dovrebbe essere il governo a valutare bene le conseguenze delle proprie azioni? Un cittadino, prima di fare un ricorso per tutelare i propri diritti, deve chiedere il permesso?

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È come se rompessimo il termometro per non dire che abbiamo la febbre. Qua la febbre è alta, e qualcuno ha fatto in modo che si misurasse.

Il guaio – grave, gravissimo – è che tanti artisti, nella legittima attesa di finanziamenti stanziati, nel frattempo hanno investito del proprio: chi ha speso quei po’ di soldi messi da parte, chi si è ipotecato casa, chi ha venduto quel che aveva da vendere. “Tanto poi arrivano”, pensavano giustamente. E invece pare che no, non arrivino più.

E allora che si fa?

Come spiegare alla giovane compagnia, al giovane regista che si è indebitato per pagare gli attori (ancora loro!) o le scenografie che quei soldi non li rivedrà perché il Governo ha sbagliato a riformare?

Dove andranno a lavorare quegli scritturati che rischiano il posto? E che dirà, dal capo opposto, l’autorevole Piccolo Teatro di Milano cui il decreto garantiva un – meritato – statuto speciale? E molti festival partono zoppicando, colpiti dalle difficoltà. Ad Albenga con Kronoteatro, a Lari per Collinarea, Castiglioncello per Inequilibrio: motivi diversi, cause diverse, ma crisi in comune.

Li sento già, i “benaltristi”: l’Italia ha ben altri problemi!

E mica tanto, se si pensa al numero degli addetti al settore e all’indotto che provoca lo spettacolo dal vivo. Il rapporto ItaliaCreativa – presentato dal ministro Dario Franceschini, dal presidente Siae Filippo Sugar, da Gianni Letta, Walter Veltroni e da Marco Polillo di Confindustria culture – diceva che nel 2014 «L’industria della Cultura e della Creatività in Italia ha generato, nel 2014, un valore economico complessivo di 46,8 miliardi di euro. Di questi, l’86% sono diretti, cioè derivanti da attività legate direttamente alla filiera creativa, quali la concezione, la produzione e la distribuzione di opere e servizi culturali e creativi». Aggiungeva anche che «Nel 2014, la filiera creativa ha dato occupazione a quasi un milione di persone, di cui l’85% nelle attività economiche dirette dell’Industria. Con circa 850.000 posti di lavoro, gli occupati diretti nell’Industria della Cultura e della Creatività rappresentano il 3,8% della forza lavoro italiana». Questi dati, se li prendiamo per buoni, comprendono anche musica, cinema, libri, tv, radio e altro. Ma, per restare nel nostro orticello, si legge che le arti performative hanno oltre 150mila occupati che producono 4,5 miliardi di euro. Gli ultimi numeri, invece, raccontano altro: per la rivista ateatro le giornate lavorative medie pro capite per gli attori in quelli che erano Tric e Centri passano da 48,9 a 45,4  (2014/2015) e per i Nazionali da 58,4 a 46,1. Occupazione in caduta.

Ebbene: si può trattare così, un simile comparto? Vogliamo paragonarlo, che so, a Banca Etruria? All’Alitalia? Non sarebbe il caso, mi permetto di suggerire, di correre immediatamente ai ripari, con un intervento diretto del Consiglio dei ministri? Pensa davvero, l’onorevole ministro, che il settore possa aspettare la risposta del Consiglio di Stato?

Arrivano già le prime prese di posizione: l’Associazione “Facciamolaconta” che riunisce oltre 600 attori di varia generazione e provenienza, mesi fa aveva fatto notare che, nel decreto, la parola “attore” praticamente non c’era. Un segnale non proprio promettente. Qualche giorno fa, a Bologna, si sono riuniti oltre 80 operatori della danza, dell’associazione AIDAP. Tra le varie proposte si legge: «Si chiede un radicale ripensamento della logica che sovrintende oggi al sistema dello spettacolo dal vivo attraverso una revisione della normativa, ingabbiata in una categorizzazione e in modalità di rendicontazione rigide che soffocano quello che l’arte è chiamata a fare».

Ma c’è da dire, chiaramente, che la responsabilità dello sfascio generale non è da imputare solo al decreto o al governo: il teatro italiano ha degli scheletroni enormi negli armadietti di scena. Connivenze, inciuci, scambi, lottizzazioni selvagge, raccomandazioni sistematiche, gestioni allegre, direzioni a vita, scelte sorprendenti hanno connotato, e non poco, tanta prassi teatrale italiana. Basti dire, per citare solo l’ultimo caso: un regista che ha lasciato un teatro stabile con milioni di deficit è ora in lizza per la direzione di un teatro nazionale. Sicuramente è un grande artista, nessuno lo nega, però certo è un fatto curioso.

Il clima, ben si comprenderà, è da fallimento, da commissariamento straordinario di tutto un mondo: il mondo del teatro. E gli attori, le attrici, i danzatori, le danzatrici, i circensi, intanto, aspettano. E mentre aspettano, in giornata, arriva l’annuncio direttamente dal ministro Franceschini.

Quindi, almeno per i finanziamenti, il guaio sembra, almeno per ora, tamponato. Il caos, tuttavia, continuerà a calcare i nostri palcoscenici.

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