Teatro

Amore e capitalismo in lotta nel teatro di Terzopoulos

2 Novembre 2016

Potrebbe far pensare a una versione postmodern di Giorni Felici: lei infossata in una specie di buca, ricavata in una straordinaria struttura orizzontale che taglia trasversalmente il palcoscenico. È un lungo parallelepipedo, una specie di grande condotta, con, al margine sinistro per chi guarda, lo spazio per la donna seduta, di cui vediamo il viso e le belle spalle nude. Sulla destra, invece, in piedi, indossando un completo nero e i piedi scalzi, c’è l’uomo. Poi, lentamente notiamo che sulla testa della donna pende, a mo’ di anomala spada di Damocle, un cilindro incombente.

Ma Beckett qui non c’entra: eppure è un assurdo quotidiano e realissimo quello che sottende l’allestimento di Amor, straordinario spettacolo creato e diretto da quel genio della regia europea che è Theodoros Terzopoulos e visto nello scintillante programma del Festival Vie di Modena.

Amor è una fantastica sorpresa: Terzopoulos – purtroppo raramente ospite in Italia e se non fosse per il festival modenese davvero quasi non potremmo vedere la sua opera – ha acume e forza da vendere.

Così imbastisce un gioco al massacro, una autopsia umana, umanissima, che diventa però metafora politica ed economica, specchio macabro delle sorti non solo greche ma europee. Identità allo sbando, le due presentate in scena.

Lui, Antonis Myriagkos, procede con raffiche di numeri, percentuali, quote, cifre, nasdaq e dow jones. Gesticolando freneticamente e incessantemente con le mani come un agente di borsa, il corpo in statica tensione, è una vertigine inarrestabile di suoni, che si declinano nelle più disparate lingue: il greco, naturalmente, poi l’inglese, lo spagnolo, l’italiano. I numeri si accavallano, si affastellano, si sommano freneticamente.

Lei, intanto, divina Aglaia Pappa, è immobile, in una smorfia macabra di serena leggiadria: un sorriso le taglia il volto, lo sguardo perso nel vuoto. Ogni tanto reagisce, lancia qualche parola che è in netta controtendenza rispetto al flusso matematico dell’uomo. È una resistenza, quella della donna, fatta quasi di sentimenti, di lirismo, di memoria.

La dialettica, dunque, è subito chiara: non solo dialettica maschile-femminile (come scrive Lucia Medri, qui) due anime, legate indissolubilmente, eppure divise, schiacciate ciascuna in posizioni dettate da altro, da fuori. Ecco: non è una denuncia, quella di Terzopoulos, ma un’amara costatazione, una struggente presa di coscienza dello stato delle cose. Le leggi del Capitale, insomma, sono in noi.

Amor, regia di Theodoros Terzopoulos, ph di Johanna Weber
Amor, regia di Theodoros Terzopoulos, ph di Johanna Weber

L’ipnosi dei numeri procede incalzante fino a che la donna, in un impeto grottesco e commovente, non si alza ed esplode in una danza (sul posto) di un flamenco lontano, evocato con rabbia più che interpretato. È la passione com’era, è una nostalgia che torna: ma subito si riaffaccia la realtà dell’economia, della produzione, della compravendita. Tutto è acquistabile, tutto si vende sul banco della Troika. E alla donna, allora, come a tutti noi, non resta che farsi merce.

Persone, paesi, nazioni: “nell’angolo più remoto d’Europa” dice la donna evocando la frontiera passata di un mondo ormai sull’orlo del collasso (o già collassato, come la Grecia) il palcoscenico può essere una resistenza al “tutto è venduto”. La bellezza, la poesia, l’Amor – l’amor quasi cortese del titolo – sono ancora là, resistono.

Ed è uno struggimento, è la disincantata poesia di chi si vede travolgere e si osserva cadere, sperando, ostinatamente, di essere ancora se stessi. Ma la visione cupa di Terzopoulos non lascia spazi all’illusione: mentre il rumore di un fantomatico treno che avanza facendo rimbombare la parola “Produce, Produce, Produce”, la donna verrà inghiottita da quel tubo nero che la sovrastava e l’uomo, travolto dai suoi numeri, ormai rimasto solo, tenterà forse la fuga arrampicandosi su una delle pareti del teatro.

Amor è un lavoro di tagliente bellezza e di ipnotica efficacia: magistralmente interpretato dai due attori, diventa una gigantesca e feroce (auto)analisi del tempo presente. Da che parte stiamo? Chi, dei due, siamo diventati? Ossessionati dall’idea di produrre, di essere bravi consumatori, mutiamo il nostro essere in fette di mercato. E solo ogni tanto ricordiamo quelle parole, ormai antiche, lontane, desuete: come amore, appunto.

Subissato dagli applausi del pubblico modenese, Amor conferma, laddove ce ne fosse bisogno, la bellissima verve teatrale del maestro Theodoros Terzopoulos: è il secondo capitolo di una trilogia (il regista ne parla qui) iniziata con Alarme e che prosegue con Encore (tra poco in scena ad Atene) che vuole investigare il sistema capitalista, il modo in cui introiettiamo le sue regole e le sue perversioni. Teatro politico, dunque, e poetico, di rara bellezza e intensità.

 

Una nota a margine su quel che accade a Modena. Dopo tanti anni di direzione di ERT, Pietro Valenti, uno dei giganti del teatro italiano recente, passa la mano a Claudio Longhi. Mi sembra un bel segnale per modalità (un bando corretto) e per continuità nel cambiamento. Longhi – regista e docente di storia del teatro all’Università di Bologna – ha già dato prova di notevoli capacità organizzative e di visione: sicuramente saprà continuare e rilanciare il lavoro fatto da Valenti al Teatro nazionale dell’Emilia Romagna. A Valenti, dunque, un saluto con l’onore delle armi (anche se starà ancora sulla tolda di comando per tutto il 2017, nel passaggio di consegne) e a Claudio Longhi un cordialissimo benvenuto.

 

 

 

 

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