Teatro
Albee, Pinter e il tasso alcolico
Dovrei smettere di bere. Me lo dico ogni volta che vedo in scena un testo di Harold Pinter – e di recente una buona edizione di Old Times nel piccolo e vivace Teatro dei Conciatori a Roma – oppure quando certa drammaturgia americana ci sbatte di fronte a un angolo bar sovraccarico di gin o whisky. E li vediamo, quei personaggetti, rancorosi, rabbiosi, confusi, perdersi nei mille rivoli di discussioni sempre più aggressive, contorte, viscerali. Siamo noi, no? Gente che si dice tutto, pensando magari di essere brillante, spumeggiante addirittura, e che invece è confusa, si svuota i polmoni maltrattando il fegato, sempre a scapito di qualcun altro.
Così avviene nel Chi ha paura di Virginia Woolf?, un classicone del contemporaneo, scritto da Edward Albee nel 1962 portato in scena (e in tournée da qualche tempo) da Arturo Cirillo con Tieffe Teatro e lo Stabile delle Marche e visto nella stagione del Teatro Vascello di Roma.
Se in Old Times – interpretato da un bravo Marco S. Bellocchio con Lisa Vampa e Christine Maria Reinhold, e con la pulita regia di Michael Rodgers – il tasso etilico si alza assieme al gioco misterioso di seduzione e distruzione a tre, nel testo di Albee le seduzioni si fanno sfacciate, smaccatamente volgari, e il massacro è un rituale cannibalico che avvolge tutto e tutti.
Chiusi in uno spazio ellittico e al tempo stesso claustrofobico le due coppie di Chi ha paura di Virginia Woolf? sono al capolinea. Gli “anziani” George e Martha (lo stesso Cirillo e la travolgente e struggente Milvia Marigliano) covano rancori nella dipendenza reciproca, mentre gli altri, i giovani Honey e Nick (i bravi Valentina Picello e Edoardo Ribatto) sono già più o meno consapevolmente avviati alla via della mesta rassegnazione, appena blandita dall’arrivismo di lui. Vita da college: i due uomini sono professori – uno mediocre, l’altro in ascesa – le donne li accompagnano ma Martha è anche figlia del rettore. Lei avrebbe voluto una carriera brillante per il marito, e una vita migliore per sé, anche grazie all’aiuto di “papà”: invece nulla. Si crogiolano nel fallimento, bevono la notte per dimenticare il giorno. Un goccetto dopo l’altro trangugiano la bile, l’astio, la frenesia di non affondare nel mare magnum della mediocrità.
Il testo, al di là dell’alcolismo diffuso, tocca due eterni temi americani: quello della famiglia e quello sociale. Le famiglie, qui, sono strutturalmente scomposte, incompiute. Albee, però, gioca di contraccolpo: i più disperati, gli anziani, alla fine si ricompattano, si ritrovano, grazie alla cannibalizzazione dell’altra coppia, quella dei giovani.
Ecco, dunque, la grande attualità di una metafora inattesa: la gerontofilia, la prevalenza dei vecchi sui giovani. In Italia – il recente resoconto Istat ci dà il paese più vecchio d’Europa – il tema diventa scottante, politico addirittura. Quel carnage è programmatico, è vampiresca sopravvivenza dei vecchi sui giovani.
Non solo: la gravidanza isterica della giovane Honey o la sterilità degli “anziana” sono il leitmotiv, sotterraneo e tragico che esploderà alla fine. Questa chiave, però, oggi stride. Viene da chiedersi come rispondere all’insita condanna morale dell’autore per queste coppie non “produttive”. Sono famiglie a metà, gente nevrotica, alcolizzati appunto. E se invece avessero avuto figli? E se la famiglia si fosse “compiuta”, se ci fosse stato quel figlio di cui favoleggiano gli anziani? Si sarebbero salvati dalla feroce dissoluzione?
Il dilemma, davvero un po’ datato, è quel che fa sentire il peso del tempo del testo e difatti ci interessa poco. Resta, però, e preme, la connotazione aspra, aguzza, tagliente – anche grazie alle belle prove attorali – di un mondo allo sbando.
E qui entra dunque l’altra questione, quella sociale, che si intreccia al mito dell’american dream. Chi fa carriera? E come? Chi si gratifica come individuo? Da noi, la piccola e media borghesia (come la classe operaia) sta scomparendo, ce lo dice ancora l’Istat: i ricchi sono sempre più ricchi, e i poveri sempre di più. Albee mette alla berlina l’arrivismo di Martha e del giovane Nick, il loro compromettersi a tutto. Probabilmente, però, allora come oggi, quel Nick si sarebbe salvato, sarebbe “arrivato”, magari candidandosi a qualche elezione. In scena invece, e la chiave registica di Cirillo lo sottolinea, sono solo solitudini e fallimenti all’orizzonte, perché quel microcosmo borghese è arrivato al capolinea, sta per crollare – e crollerà nella bella soluzione scenografica di Dario Gessati – come il mito americano.
Del teatro di Arturo Cirillo mi piace il suo “riportare tutto a casa”, ovvero la capacità di rendere vivo e vero un testo un po’ polveroso, smitizzandolo, demistificandolo, umanizzandolo. Come ha fatto con Zoo di Vetro, splendidamente: in questi drammi spinge verso un livore molieriano, un cupo rancore cui non sfugge, però, un tocco di melodrammatica nostalgia. Quasi pensando a come sarebbero potute essere le cose (e le persone) se fossero andate altrimenti. Così non è: il dramma è già compiuto, tutto è già scritto prima, le storie sono solo un epilogo da rivivere sera dopo sera.
Devi fare login per commentare
Accedi