Teatro

Al Piccolo gli uomini con i loro no che sarebbero piaciuti a Ronconi

7 Novembre 2017

C’è un tram da prendere al Piccolo, al Teatro Studio fino al 19 novembre: un tram che si chiama resistenza, allestito da Carmelo Rifici che ci fa recuperare Vittorini in sessione straordinaria. La resistenza di Uomini e no, con i diplomati della scuola del Piccolo intitolata a Luca Ronconi. Due tempi in bicicletta per le strade di Milano immerse nella notte del nazifascismo: corse di partigiani illuminati da una luna indiscreta che filtra nel coprifuoco, come «un immenso ragno con zampe sottili» sulla città.

Quella del Piccolo non è la prima riduzione teatrale del testo: esisteva già il precedente di Enrico Vaime e Raffaele Crovi del 1965. Ma il lavoro di drammaturgia di Michele Santeramo è ottimo e conserva la musicalità oltre che il radicale surrealismo dello scrittore siciliano, che tutti conoscono ma in pochi hanno letto veramente, complice forse l’assuefazione pasoliniana degli ultimi quarant’anni.

Sarà che Pasolini stava nel gran mondo romano, mentre Vittorini, più sobriamente, a Milano: il primo poeta corsaro dalla vita invadente, il secondo cauto pur con penna e gusti arditamente sperimentali, come scrittore, editore e traduttore. Sta di fatto che in scena Vittorini ci sta benissimo: la sua scrittura ha un corpo che vive e si muove, che si articola e disarticola nel coro di personaggi su cui incombe l’atrocità dell’occupazione. In sala un senso di tragedia antica, con l’aggiunta di una narrazione in terza persona che sarebbe piaciuta a Ronconi.

 

Sullo sfondo di questo mite inverno del ‘44 ci sono soltanto macerie e detriti, e Milano diventa una protagonista silenziosa e sofferente che si trascina a brandelli, come i pezzi di tram che scorrono nella scena di Paolo Di Benedetto, una delle più suggestive viste negli ultimi anni: metafisica sezione scomponibile del tranvai numero 27 al centro della sala circolare del Teatro Studio.

Oltre ai carrelli, ci sono botole e biciclette in perfetto omaggio ronconiano. Come ronconiana sembra l’impostazione dello spettacolo, almeno nella prima parte, forse la più complessa e la più faticosa, che narra di una resistenza quasi più interiore e simbolica. Anche il romanzo trascina subito in un universo che pare un Borges un po’ affettato, come se richiedesse al lettore il compito di ricostruire i frammenti di Storia incastrati in questi personaggi senza nome – basta l’iniziale del quartiere e un numero, come Enne 2 dove Enne sta per Naviglio.

Eppure la recitazione non sembra affatto anti realistica, tanto che nella seconda parte, più aneddotica e feroce, questa drammaturgia di vinti senza tempo prende forma in modo più convincente diventando davvero universale, con aperture per riflessioni sui punti di sutura tra il nostro presente e quel che resta di un passato incomprensibile. Esemplari in questo senso le voci dei cadaveri di Largo Augusto, che descrivono se stessi con gli occhi di testimoni ammutoliti, o la suspense costruita per l’interrogatorio di Clemm al povero Giulay, nudo e indifeso prima di scendere dignitosamente sottoterra a farsi dilaniare dai cani – Alfonso De Vreese e Alessandro Bandini, i migliori in scena insieme al protagonista Salvo Drago.

Eccolo il deserto di Vittorini: l’estraneo che cresce nelle viscere di ogni uomo, il “no” che può offendere il mondo in ogni direzione, allora come oggi. E del lavoro di Rifici colpisce soprattutto la concretezza del suo discorso, più coinvolgente di qualsiasi metafisica della resistenza che il surrealismo di Vittorini avrebbe potuto suggerire.

Foto ©Masiar Pasquali

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