Storia
Quel 25 aprile in quest’Italia incattivita
Il 25 aprile 1945 era mercoledì. Come oggi. Le coincidenze non contano, ma serve ricordarlo, perché forse il parallelismo dei tempi aiuta o, almeno, favorisce la lettura in tempo reale della storia.
Anche per questo, una nuova immersione in quel tempo ha oggi un significato non nostalgico e forse è utile per prendere la misura delle cose.
Lo storico Giovanni De Luna, interrogandosi sul senso di questo 25 aprile, si è chiesto ieri su «La Stampa» se questo paese incattivito e disorientato voglia rimettere in discussione «quel nesso indissolubile tra antifascismo e Carta Costituzionale».
Alle volte, anche se è chiara la distanza di tempo, è importante avere un rapporto emozionale con i fatti storici, soprattutto quando questi parlano del passato ma noi li interroghiamo con gli occhi e le immagini del presente.
Così anche questa volta (ancora De Luna ieri scriveva come «il 25 Aprile è sempre stato un sismografo pronto a registrare le inquietudini del nostro sistema politico»). Così anche oggi.
Uno dei grandi pregi di 25 aprile 1945 (Laterza) di Carlo Greppi è consentire una ricostruzione dettagliata, ma anche emozionale dei fatti. Non è l’unico, perché la storia la si capisce stando dentro al processo del suo farsi in tempo reale, ma rischia poi di essere solo scena se non corroborata non solo dalla padronanza dei documenti, ma anche della capacità di saper connettere il tempo breve dell’azione, della storia evenemenziale, con lo scavo nel tempo indietro.
25 aprile 1945 è una prova riuscita di molte cose: di scrittura, della capacità di tenere insieme la documentazione. E di essere una narrazione coinvolgente, come raramente capita a un libro di storia. In breve: la dimostrazione che la storia si può raccontare con la tecnica dello storyteller, ma poi si porta a casa e ci rimane tra le mani molto altro, come un tempo avremo chiesto e preteso al libro di saggistica storica.
Ma soprattutto è una storia in cui sono essenziali le persone concrete, con le loro passioni, i loro linguaggi, le emozioni che provano.
La scena nel libro di Greppi non è quella delle grandi narrazioni di massa, ma piuttosto quella delle singole persone che in quella giornata svolgono un ruolo (come ha scritto giustamente Davide Turrini su «Il Fatto» di ieri) , spesso attraverso le parole di allora, la cronaca e la ricostruzione di quelle ore febbrili, a Milano tra le 11 e le 20 di sera, in uno spazio ristretto tra il presidio in cui decide il quadro del Comitato di Liberazione Nazionale dell’Alta Italia (CLNAI) e le stanze in cui nervosamente si muovono Mussolini e i suoi. Nelle stanze silenti dell’Arcivescovado dove si consuma l’ultimo tentativo tra le 15 e le 19 di quel 25 aprile dove Mussolini prova ancora a fare lo sbruffone, Rodolfo Graziani fa finta di difendere l’onore di qualcosa che non c’è più, il cardinale Schuster prova a rappresentare una mediazione tra due parti ma in realtà volendo riservarsi il diritto di salvare la sua lunga continuità con il regine che c’era, più in confidenza con Mussolini che con il quadro dirigente della Resistenza, il generale del Corpo Volontari della Libertà (CVL), Raffaele Cadorna, Riccardo Lombardi di lì a poche ore il prefetto della Milano che sta per liberarsi, un irruente Sandro Pertini, dell’unica figura che non c’è e che arriverà troppo tardi, ma che è la vera anima inquieta e devota alla causa della Resistenza, Ferruccio Parri, di Luigi Longo, forse la figura più emblematica, più inquieta,come ha ricostruito anni fa Alexander Hobel.
Tutto si svolge nel pomeriggio tra le 12 e le 19, intendo dire non l’azione per le strade, ma la trattativa. L’inizio di quella trattativa stretta era avvenuto il giorno prima, martedì 24 aprile, tra il demo ristiamo Achille Marazza inviato del CLNAI e Gian Riccardo Cella, un industriale che prova a fare la mediazione tra il comando dei resistenti e Mussolini.
«Mussolini vuole trattare», dice Cella. «Trattare di che?», gli risponde Marazza. E subito dopo aggiunge: «Diciamo che vuole arrendersi e allora non c’è che da informare il CLN Alta Italia» [p. 75].
È la scena che fa premessa alla trattativa che avviene il giorno dopo in Arcivescovado. Una scena che riletta oggi dice molto della narrazione inventata di chi ripercorre la storia di quei venti mesi dalla parte di Salò, come la storia di una generazione inquieta. Ma anche complessivamente dice molto di una Resistenza e di un partigianato che Greppi scava nei volti, nei pensieri, nel vissuto di quelle persone e che ha una storia lunga dentro di sé. E del trinomio che regge l’intera esperienza della Resistenza nell’Italia settentrionale e su cui incardina gran parte di questo suo libro.
Raffaele Cadorna, che nasce nel mondo dell’esercito, ha una fedeltà monarchica, è sicuramente un conservatore eppure trova naturale, coerente, lavorare con grande coinvolgimento e senso di collaborazione con Luigi Longo, il numero due del Pci, con un’esperienza dietro le spalle di dirigente delle Brigate internazionali nella Spagna della Guerra civile, e con una forte motivazione ideologica, che ha profondamente o il senso dell’impegno alla rivolta, della necessità di non delegare all’esercito anglo-americano che risale la penisola di lasciare in mano il ruolo di liberatore tanto da insistere perché ci sia l’insurrezione delle città del Nord e che sia del partigiano l’azione di liberazione (come poi appunto fu).
Infine Ferruccio Parri, la figura spirituale che in sé concentra la visione di un’altra Italia, come dirà poi in un memorabile discorso il 13 maggio 1945 a Roma al teatro Eliseo. Un testo che Greppi utilizza molto opportunamente nel suo libro – e su cui è tornato a insistere anche dopo – per illustrare il senso di una scelta morale implicita nell’atto resistenziale, ma anche nella misura politica che si presenta a governare l’Italia.
Un testo, quel discorso di Parri al teatro Eliseo, che è il resoconto sia di quello che un’Italia civile ha vissuto, ma anche di come e perché ha fatto una scelta. Una confessione a voce alta di un’Italia che raramente ha trovato le parole per dimostrare se stessa. Ma anche la testimonianza di una figura che forse nell’immaginario letterario è rimasta come quella dell’uomo che esce di scena, a fine novembre dello tesso anno quando è costretto a dimettersi da Presidente del Consiglio del primo governo dell’Italia liberata quale ce la consegna Carlo Levi in alcune pagine profonde e drammatiche nel suo L’orologio.
Carlo Greppi ha il grande merito in questo suo libro di riportare al centro della scena non il mito, ma le persone concrete, con le loro pulsioni, la loro determinazione, la loro intransigenza per un’Italia che in quelle ore prova a scrivere e a vivere il proprio riscatto – un paese che oggi settanta anni dopo molti nemmeno percepiscono perché pronti a discettare di vissuti di quel senso di riscatto che riservano a se stessi nel presente, ma che non sono disposti a riconoscere e a rispettare guardando alle menti e ai cuori di una parte di una generazione che con molte contraddizioni allora provò a riprendersi in mano il destino, che in molti casi fu poi sconfitta eppure non rinnegò mai il senso di quella scelta convinta del senso di responsabilità implicito in quell’atto.
Un quadro che non costituisce né una novità, né un’eccezione.
Lo storico Sergio Luzzatto ha ricordato anni fa, opportunamente, come i vecchi giacobini che ripensano la loro condizione una volta che sono stati messi al margine: un sentimento di frustrazione circondato da un mondo che rimprovera loro la loro violenza, ma non è disposto a riconoscere quel legame tra libertà di cui gode e la violenza che è stata necessaria o non eludibile per tentare di raggiungerla.
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