Storia
Perché ci si converte. Rinnegati, pentiti e traditori
Le cronache dei giornali ci narrano continuamente di clamorose conversioni. Attualmente la confessione religiosa che attrae di più è quella islamica. Si converte Pietrangelo Buttafuoco assumendo il nome arabo di Jafar el Siqili, si convertono anonimi impiegati e operai. Forte è il richiamo di una vita che trascenda dal proprio “io” attuale, che lo tramuti in qualcosa “altro da sé”, magari in uno scenario esotico o violento: più forti sono gli scossoni più radicale la scelta intrapresa, più motivato e rigenerato appare l’io del convertito. Qui di seguito porgo alcune analisi sul tema del cambiamento interiore prelevate dal mio taccuino personale.
Ai punti di snodo della vita interiore capita a tutti d’incontrare il dubbio sulla strada intrapresa. Si pone il dilemma allora: o andare avanti e cambiare direzione o tornare indietro e cambiare strada, per dirla con una formula crociana. Spesso, negli intellettuali che sentiamo più consentanei, ovvero quelli dalla forte impalcatura laica, il cambiamento è il risultato di una sintesi dialettica, un’assunzione a livello superiore del negativo del mondo, o semplicemente una presa in carico degli errori passati. Le “dure repliche della storia” funzionano per costoro come delle smentite alle ipotesi della ragione, come esperimenti falliti in un gabinetto scientifico. Qualcosa di cui laicamente prendere atto. Andare avanti e cambiare direzione, dunque. Ma mai quanto per costoro però, il termine conversione è improprio. Gli intellettuale laici ossia coloro che sono privi di ogni aspettazione chiliastica, di ogni conato fideistico non si convertono, si convincono. Essi pensano, non credono.
Ci sembra questo il caso di un intellettuale dell’800, Aleksandr Herzen, di cui non so il grado di popolarità presso i lettori. Giovanissimo, a quindici anni circa, sale sulla “Collina dei Passeri”, nei dintorni di Mosca, e qui in uno scenario paesaggistico e psicologico molto romantico, unitamente ad alcuni coetanei, giura di liberare la Russia da tutti i suoi eterni mali. La troviamo un’esperienza struggente questa, per nulla démodé. Abbiamo sempre pensato che ognuno di noi ascende prima o poi la propria Collina dei Passeri e sigla col vento una specie di patto autobiografico (rubiamo la formula a Philippe Lejeune piegandola però alle nostre esigenze semantiche), quel patto di lasciare il mondo un po’ meglio di come lo abbiamo trovato. E la cui infrazione ci fa tanto soffrire.
Quarant’anni dopo, Herzen scrive ad un vecchio sodale di allora, Bakunin, quattro lettere (raccolte nel volume “Ad un vecchio compagno“, Einaudi 1977) in cui manifesta nitidamente tutti i suoi ripensamenti, in ordine soprattutto alle modalità per il raggiungimento di quelle giovanili mete ideali, che restano, per lui, immutate. «La soluzione finale per entrambi è la stessa» gli scrive, ma « se sono mutato, ricorda che tutto è mutato» aggiunge sottolineando le ultime parole. Rifiuto della violenza cieca (e per nulla creatrice come credeva Bakunin); appello allo studio e all’intelligenza contro l’azione per l’azione, insomma gradualismo contro colpi di testa e colpi di stato, gli fanno infine dichiarare apertamente: «Io non credo nelle vie rivoluzionarie di un tempo e mi sforzo di capire il passo umano nel passato e nel presente al fine di sapere come camminare con esso, senza restare indietro e senza correre avanti in una lontananza, dove gli uomini non mi seguiranno, non possono seguirmi. […] Dichiarare questo nell’ambiente in cui viviamo esige se non più, certo non meno coraggio e indipendenza dell’occupare in tutte le questioni l’estremità più estrema».
Andare avanti e cambiare direzione, dunque.
Ma c’è chi torna indietro e cambia strada, si converte cioè. Sicuramente conversione è un termine di significato e impiego religiosi. Ma non riteniamo che riguardi solo i credenti, quanto piuttosto le personalità religiose. Di queste ce n’è più che nei conventi. Un individuo presenta una personalità religiosa non quando accompagna le proprie idee con la passione e il fervore di cui anche l’intellettuale più razionalista non è privo, ma quando piuttosto assegna ad esse il compito di spiegare tutto, il cielo e la terra, la propria vita e quella degli altri, quando insomma crede che esse possano “concludere” tutto, e che la propria testa comprenda il mondo intero e tutto lo spieghi. Per costoro l’ammonimento che esistano «più cose in cielo e in terra che nella nostra filosofia» non è mai diventata pratica corrente di igiene mentale e norma di salvaguardia intellettuale. E tuttavia le conversioni di siffatte personalità religiose lasciano qualche perplessità laddove si consideri che alcune di esse, solite ad « occupare in tutte le questioni l’estremità più estrema» per riprendere le parole di Herzen, cambiano solo il contenuto della loro mente e non la forma. Coloro i quali ad esempio negli anni scorsi sono passati da LC a CL si sono “convertiti” davvero? O piuttosto hanno invertito solo le consonanti e mantenuto intatto lo sguardo integrale con cui guardavano il mondo? Per molti intellettuali del cattolico Veneto il Proletariato non ha assorbito nelle loro menti le stesse funzioni soteriologiche che vi aveva il Vangelo? E per molti altri la vista della foca monaca non suscita le stesse risonanze interiori che una volta il Quarto Stato? Vogliamo dire che per molti di costoro la struttura di base della coscienza è rimasta al fondo di tipo religiosa, nel nostro caso, cattolica. E che convertirsi avrà avuto il significato di un inversione intellettuale, un ritorno al sé stessi di una volta.
Ambito religioso dunque. Abbiamo interrogato perciò dizionari di spiritualità e lessici del Nuovo Testamento. I Settanta usano, a luogo degli originali ebraici Shûb e Niham, i termini metànoein e metamèlestai. Il primo, il più noto, indica un cambiamento di idee in generale o riguardo a un peccato in particolare, mentre il secondo significa soltanto sentire rincrescimento, pentirsi. Si noti che il primo ha a che fare con la testa (cambiare pensiero, opinione, significa letteralmente), mentre il secondo rimanda al cuore (da melèi, “mi sta a cuore”), a comprova, se ce n’era bisogno, che ogni cambiamento di testa, di idee, trascina con sé il cuore, le passioni, e che conversione e pentimento sono se non etimologicamente concettualmente avvinti ab origine. Il Nuovo Testamento usa i due termini e concetti, dicevamo. Quello che ci interessa qui, metànoia, è tradotto nella Vulgata col termine latino di convertor (donde convertirsi), che induce il “Dictionaire de Spiritualitè” a interrogarsi perplesso sulle esatte sfumature del termine: «Conversion, pénitence ou repentir?», perché è chiaro che in ogni cambiamento radicale di idee, in ogni conversione, c’è un afflato espiativo per quel che si era prima, e un pentimento, come punto di avvio di una esistenza nuova.
La metanoia più clamorosa nel Nuovo Testamento è quella di Paolo di Tarso, l’uomo cui si deve la diffusione del Cristianesimo. La sua metanoia è improvvisa e inaspettata. Né negli “Atti” né nelle “Lettere” c’è alcun cenno a un periodo di maturazione, di incubazione della nuova fede. Tutt’altro. Negli “Atti” (7, 58)si dice che Paolo era tra i più accaniti persecutori dei primi cristiani (teneva le vesti dei lapidatori del diacono Stefano, protomartire), come dire che nulla lasciava presagire la conversione sulla via di Damasco avvenuta nella maniera sconvolgente che tutti sanno. La sua è una conversione tipicamente religiosa (oltre, o più, che intellettuale e morale): non c’è tuttavia l’incontro con un maestro di pensiero, non c’è la lettura di libri sconvolgenti, neanche il classico ritiro nel deserto, non c’è una esperienza fondamentale di natura intellettuale, ma un’illuminazione improvvisa, una fortissima luce, e Paolo si converte, passa da uno stato all’altro, da primo persecutore dei cristiani a primo dei cristiani, ma con la stessa passione, con lo stesso furore.
Un convertito visto dal gruppo di fede d’origine è però un rinnegato. È rinnegato Kautsky per i marxisti rivoluzionari, è rinnegato (giannizzero) il cristiano convertito all’islam, è rinnegato (marrano) l’ebreo convertito al cristianesimo, è rinnegato l’emigrante che non condivide più le mentalità del paesello natio, etc. La tragedia grande per il rinnegato è che egli spesso rischia di venir rifiutato sia dal gruppo di provenienza, come dal gruppo d’arrivo. E il termine “rinnegato” è quello con cui, con crescenti sfumature d’odio, i due gruppi si rimballano il soggetto. Egli subisce cioè l’esperienza bruciante della marginalità. Ma ciò mentre può convertirsi in un suo punto di forza, in ogni caso attiva in lui alcune energie che tendono a soggettivizzare sempre più il rinnegamento, che da accusa lanciata dai due gruppi diventa sempre più scelta ossessiva individuale. È il momento in cui il rinnegato non solamente viene designato come tale, ma fa il rinnegato. Sospeso com’è tra due mondi culturali differenti e contrastanti egli vive per intanto, alcuni dicono per sempre, una perenne incertezza psicologica tra due mondi mentali e morali che ne riflettono nella sua anima le discordie e le armonie, le repulsioni e le attrazioni. Si stabilisce tuttavia, dopo lo strappo e col passare del tempo una “dominante” che egli tende a rafforzare soggettivamente, soprattutto al fine di essere accettato dai membri più influenti del gruppo d’arrivo. Ossia tende a diventare se ex comunista, più anticomunista degli anticomunisti “storici”, se ex cristiano, più islamista degli islamici, se pugliese d’origine e vivente a Milano, più padano dei padani (vedasi la leghista Rosy Mauro) ecc. Il corso di acquisizione del nuovo mondo morale tende a radicalizzarsi fino al punto di operare sull’individuo rinnegato veri e propri processi di falsificazione della coscienza. Il rinnegato ha un giudice dentro di sé, che è il sé stesso di una volta, un giudice severo e arcigno che nulla perdona e nulla si perdona. In sé stesso assomma i tre i nemici di ognuno: il nemico interiore, il nemico anteriore, il nemico esteriore. Egli esercita così su sé stesso direttamente, e per interposta persona, un radicalismo sempre più crescente verso i singoli e verso tutto il gruppo di provenienza, adesso “il” nemico. Egli non ha pace, vede sé stesso in loro e loro in sé stesso, più di ogni altro conosce tendenze e movenze interiori dei due mondi, perché egli ne è a cavallo, e ha una conoscenza superiore rispetto a chiunque altro perché sa come agiscono e reagiscono entrambi i gruppi. Più grande è la sua apostasia più grande è il suo furore verso il gruppo di provenienza, perché egli tutto può fare nel processo di falsificazione della propria coscienza fuorché modificare il passato (facoltà negata anche agli dei), annullare totalmente quel che lui era una volta, e non troverà pace perciò se non nel ferire ogni giorno un ex sodale, perché così facendo egli è come se sputasse ogni giorno sulla tomba dove ha sepolto sé stesso.
Il rinnegato vive l’esperienza dei défroqués, ossia degli stonacati, degli spretati. E di spretati è pieno il mondo. Ernest Renan che era uno di costoro (non fu prete, ma ci fu vicino) veniva definito da Charles Péguy, che sottolineava il di lui acceso anticlericalismo, «le prince et l’ordinateur des défroqués(…) le défroqué en chef». Lo spretato sa che semel sacerdos, semper sacerdos, e che extra ecclesiam nulla salus. Non può strappare da sé la vecchia condizione, sa nell’intimo che persa per persa l’anima fuori dalla propria Chiesa occorre tentare il grande rilancio, la grande sfida, diventare il capo di quegli altri, comportarsi come Lucifero, l’antesignano di tutti gli ex, mettersi cioè a capo dei Diavoli, forzare fino all’estremo le proprie scelte con consapevole, sofferto, drammatico, disperato satanismo. C’è nel défroqué, nel rinnegato, un’addizionale di odio, di furore, altrimenti inspiegabile se non in virtù di queste movenze interiori che abbiamo cercato di delineare. Ma qui solo una lucida autoanalisi di Giuliano Ferrara, detto anche Giuliano l’Apostata (vedi qui) un’analisi che è nei mezzi della sua intelligenza luciferina del proprio mondo mentale, ci potrebbe dire qualcosa di più, soprattutto qualcosa dal di dentro. A noi non resta che registrare una sua celebre intemerata televisiva: quel disperato « Io sono di destraaaaa!»urlato da uno che da bambino giocava sulle ginocchia di Togliatti.
Se nel rinnegato c’è un eccesso persecutivo, nel pentito, ossia il convertito ripiegato in sé stesso, c’è un’amplificazione introiettiva. Il pentimento attiene più al cambiamento dei comportamenti che delle opinioni a dire il vero, ma è sempre difficile distinguere gli uni dalle altre. Si cambiano i comportamenti perché si cambiano le opinioni e viceversa. In ogni caso è figura centrale del cambiamento interiore. Scrive infatti Giuseppe Flavio: «Accanto alla metànoia, il mutamento di volontà, sta il metàmelos, il pentimento, di cui l’uomo soffre incolpando sé stesso». E Democrito, molti secoli prima: «Il rincrescimento (metamelia) per le azioni indecorose è la salvezza della vita».
Il pentito per eccellenza nella nostra letteratura è l’Innominato dei “Promessi sposi” di Alessandro Manzoni, per parte sua un convertito, un ex, passato dalle posizioni volterriane e illuministe alle cattoliche (anche se per Aldo Spranzi non è vero, avendo Manzoni deciso deliberatamente di mentire sulla sua conversione). In realtà non c’è solo quest’episodio nel romanzo, dove circola piuttosto tutta un’atmosfera pre-gozziniana di perdoni e pentimenti incrociati, di molti delitti e di pochissime pene. Nel cap.IV fra Cristoforo dopo un omicidio si pente, chiede e ottiene il perdono; nel cap. XXI dopo una notte di sudori freddi si pente l’Innominato che nel cap. xxiii si converte davanti al card. Borromeo; nel cap. XXXV Renzo perdona don Rodrigo, mentre su tutti, vittime e carnefici, la peste-amnistia passa un colpo di spugna. Insomma è il romanzo (poco letto e pochissimo compreso nei paesi protestanti) di un Paese cattolico dove da sempre si sorveglia pochissimo, si punisce ancora meno, e quando si commina la pena, spesso la si dà a quelli sbagliati.
La scena del pentimento dell’uomo che ha sulla coscienza una lunga lista di delitti è vibrante e tutta giocata all’interno del plastico cattolicesimo del Manzoni. C’è il pentito che si contorce una notte intera alle prese con l’esame di coscienza di tutta una vita e che sente emergere in sé l’uomo nuovo. Come tutti quelli toccati dall’esperienza del cambiamento interiore, anch’egli subisce infatti lo sdoppiamento dell’io. C’era « quel lui, scrive il romanziere che cresciuto terribilmente a un tratto, sorgeva come a giudicare l’antico» e più avanti «ora si proponeva d’abbandonar il castello, e andarsene in paesi lontani, dove nessuno lo conoscesse, neppure di nome; ma sentiva che lui, lui sarebbe sempre con sé»
Il romanzo è del 1827 ma già nel 1819, nelle “Osservazioni sulla morale cattolica”, Manzoni aveva affrontato il tema del pentimento in polemica con il protestante ginevrino Sismonde de Sismondi secondo il quale se l’Italia era entrata, dopo la grande civiltà dei Comuni, in un periodo di decadenza, lo si doveva soprattutto all’influenza della religione cattolica che aveva infiacchito lo spirito pubblico e la morale privata e aveva reso gli Italiani corrotti e felici. La polemica del ginevrino si appuntava soprattutto sulla casistica morale che sminuzzando il Peccato nei peccati offriva alla coscienza del peccatore italiano e cattolico molte uscite di sicurezza, nonché sulla dottrina controriformista della penitenza, «causa di un nuovo sovvertimento nella morale» in quanto «un solo atto di fede e di fervore fu dichiarato sufficiente per cancellare una lunga lista di delitti». Una lunga lista di delitti come quella dell’Innominato?
Sismondi insinuava che i lavacri periodici attraverso la confessione rendessero la coscienza degli italiani meno ferma e la morale meno salda, pronta comunque a transigere periodicamente con se stessa. Manzoni innanzitutto obietta che il sacramento della penitenza non coincide con la confessione, «essendo la confessione la parte più apparente del sacramento della penitenza, ne è venuto l’uso di chiamare impropriamente confessione tutto il sacramento», il quale invece si compone di tre distinti atti di coscienza, la contrizione, la confessione e la soddisfazione; richiama poi l’attenzione sul primo momento, la contrizione, la quale secondo il Concilio di Trento si configura come «animi dolor ac detestatio est de peccato commisso, cum proposito non peccandi de coetero» ossia «dolore dell’animo e una detestazione del peccato commesso, col proponimento di non peccare più». La polemica del Manzoni continua tenacemente glossando punto a punto il testo del ginevrino. Il quale ebbe a dire garbatamente, quando lesse le “Osservazioni”, che Manzoni «descrive la morale cattolica come deve essere; ed io l’abuso che se ne fa» e che «noi sembriamo due spadaccini che vogliono battersi in una notte oscura (…); mentre che egli crede di assestare dei colpi sopra di me in un angolo della camera, io sono nell’altro e non ci raggiungiamo mai. Noi non diamo alle parole il medesimo senso, non abbiamo in vista le medesime idee…».
* * *
Sul tradimento e sui traditori si rinvia alle analisi di Marcello Flores qui discusse da David Bidussa
Devi fare login per commentare
Accedi