Storia

In ricordo di Mario Cervi

20 Novembre 2015

Con la morte di Mario Cervi, a 94 anni, se ne va uno dei grandi protagonisti del giornalismo del 900.

Cervi, scampato alla prigionia dei nazisti grazie all’ospitalità di una famiglia di contadini greci, la cui figlia, Dina Ciamandani, sarebbe poi divenuta sua moglie, esordì nel 1945 al Corriere della Sera, occupandosi inizialmente di cronaca giudiziaria.

Come inviato del quotidiano milanese seguì alcuni dei principali avvenimenti internazionali: la crisi di Suez, il golpe in Grecia, quello di Pinochet in Cile, la morte di Allende (fu uno dei tre giornalisti italiani presenti al suo funerale), la rivoluzione dei garofani in Portogallo.

Il cambio di linea politica in senso progressista impresso dal nuovo direttore Piero Ottone e dalla “zarina” Giulia Maria Crespi portò all’estromissione di Montanelli dal Corriere della Sera e alla fondazione da parte di quest’ultimo, insieme ad un sontuoso manipolo di giornalisti e intellettuali liberal-conservatori, de “Il Giornale”; tra questi, oltre a Guido Piovene, Enzo Bettiza, Egisto Corradi, c’è Mario Cervi (il successore di Ottone, Di Bella, disse che Montanelli si era portato via l’argenteria di famiglia).

Fu quella de Il Giornale montanelliano un’esperienza editoriale di grande successo, durata 20 anni, e trasposta in un bel libro del 1994 edito da Mondadori, scritto a quattro mani con Biazzi Vergani.

Vi riporta gli eventi culminanti che costellarono la vita de Il Giornale: gli esordi difficoltosi (l’attentato a Montanelli  ad opera di un comando delle Br, il boicottaggio del quotidiano orchestrato dai tipografici e da alcuni edicolanti, le intimidazioni e le molestie patite dai lettori); gli scoop messi a segno (il giornale fu il primo a dare la notizia della morte di Breznev); gli incontri privati di Montanelli con i grandi leader politici dell’epoca: Berlinguer, Spadolini, Craxi, Cossiga, Scalfaro.

Infine, la caduta del muro di Berlino (Montanelli motteggiò così: “bisognerebbe ricostruirlo” per non perdere lettori), l’emergere di Tangentopoli con il conseguente dissolvimento del sistema partitico della prima repubblica, la rottura con Berlusconi, che per un certo periodo, nonostante le intemperanze caratteriali di Montanelli, fu del giornale un editore realmente disinteressato, rispettoso e non troppo invadente, generoso nel ripianarne le perdite ingenti, finché non decise di piegarlo ai suoi interessi politici in vista della candidatura a leader nel campo del centrodestra, e quindi cacciò Montanelli  (sul ruolo di Berlusconi in quella vicenda e in generale come editore è opportuno leggere “Il sabato andavamo ad Arcore” di Federico Orlando).

Cervi seguì Montanelli a La Voce più per affetto che per convinzione (fu un errore, ammetterà in seguito). Lasciò anzitempo il nuovo quotidiano fondato da Montanelli per andare a collaborare con Il Resto Del Carlino.

E’ a partire da quel momento che il rapporto tra i due si incrinò per poi successivamente compromettersi del tutto.

Quando Feltri si dimise da Il Giornale, Berlusconi, unico vero editore-padrone de Il Giornale, offerse la direzione dapprima a Bettiza, che rifiutò, poi, su suggerimento di Feltri e Lorenzetto, a Cervi, che accettò con il placet di Montanelli.

Nel periodo in cui fu direttore, dal 1997 al 2001, si limitò a vergare editoriali e a gestire le noiose incombenze pratiche che spettano a qualunque direttore di giornale.

Era affiancato da Maurizio Belpietro, all’epoca trentasettenne, in veste di condirettore: in realtà era lui il direttore di fatto, quello che decideva la linea editoriale e politica; Cervi fu scelto solo per garantire una certa continuità e per il fatto di essere un giornalista di grande esperienza e di sicuro richiamo per i lettori del quotidiano berlusconiano.

La scelta di passare con Berlusconi, che in passato aveva fieramente avversato (al giornale insieme ad Orlando fu uno dei più irriducibili e convinti antiberlusconiani, basta rileggere quello scrisse su di lui), fu dettata oltre che da opportunismo anche dalla volontà di affrancarsi da Montanelli, la cui ingombrante presenza ne sminuiva il talento.

Cervi si trovò nella difficile situazione di dover dirigere un giornale che non lesinò attacchi anche piuttosto grevi contro il Montanelli che dalle colonne del Corriere della Sera parteggiava apertamente per la sinistra (e per i quali Montanelli si risentì non poco).

Questo comportò non la fine dell’amicizia tra i due, dal momento che Montanelli non provò mai un simile sentimento per nessuno, bensì del loro sodalizio professionale e umano.

Il diverbio raggiunse l’acme e divenne manifesto allorché Montanelli dalla tribuna di Michele Santoro fece un appello pubblico a votare per il centro-sinistra guidato da Rutelli, contro Berlusconi (invito che in precedenza aveva fatto nel 1996 sul Corriere, a favore di Prodi).

Cervi il giorno dopo in un editoriale in prima pagina polemizzò aspramente contro di lui  rammaricandosi per quel gesto ritenuto improvvido e sbagliato.

Da quel momento iniziò contro Montanelli una violenta campagna di stampa da parte dei media berlusconiani (cui prese parte attiva anche il Giornale diretto da Cervi) volta a delegittimarlo agli occhi dell’opinione pubblica di destra.

Quando due mesi dopo la fine della campagna elettorale Montanelli morì, “i manganellatori e linciatori che fino a un giorno prima l’avevano pesantemente insultato, (…) ora, accalcati intorno al feretro, versavano copiose lacrime di coccodrillo” scrisse Travaglio nel suo libro dedicato a Montanelli.

In questi giorni nessuno tra i giornali che hanno rievocato la figura di Mario Cervi ha menzionato questa brutta macchia nella sua carriera professionale (e per la quale, peraltro, provò sincero pentimento). Mi sembra giusto ricordarlo.

Cervi è infine rimasto al quotidiano di via Negri, dove fino a poche settimane fa curava la posta dei lettori e ogni tanto stilava qualche bell’articolo. Gli ultimi suoi pezzi sono stati sulla “legge truffa” e su Ingrao.

Aveva un temperamento opposto a quello di Montanelli: tanto Montanelli aveva un carattere puntuto, egolatrico, passionale e insieme bizzoso tanto Cervi era un uomo mite, compito ed equilibrato. Un galantuomo d’altri tempi.

Soprattutto era un ottimo scrittore (la prima e principale qualità che distingue un buon giornalista da uno mediocre), dotato di una scrittura essenziale, che rifuggiva gli espedienti retorici e gli inutili barocchismi mirando alla perfezione stilistica. A rileggere oggi ciò che scrisse in passato si avverte la distanza incolmabile rispetto alla sciatteria, nella forma e nella sostanza, che è il tratto prevalente del giornalismo contemporaneo.

La prosa tersa, elegante e scorrevole di Cervi era perfettamente assimilabile a quella di Montanelli. Per questo Montanelli lo scelse per completare la sua enciclopedia storica.

Insieme scrissero 13 volumi della storia d’Italia, un lavoro monumentale cui Cervi si dedicò per 18 anni. Snobbata dagli storici di professione, ebbe un successo clamoroso, e, grazie al linguaggio ricercato quanto basta ma al contempo semplice e accessibile a tutti, contribuì ad avvicinare milioni di italiani alla materia.

Com’è noto, “la storia d’italia”, per quanto riguarda i volumi a cui i due lavorarono insieme, fu quasi interamente frutto del lavoro di Cervi; Montanelli faceva l’introduzione e la postfazione, qualche raro ritratto, ricontrollava il tutto, dopodiché vi apponeva la firma. Anche qualche corsivo e risposta alle lettere attribuiti a Montanelli erano suoi (in questo caso non disse nulla per l’umiltà e la modestia che lo contraddistinguevano).

Cervi, dunque, oltre ad essere un giornalista di vaglia, fu anche uno storico di buon livello: in “Storia della guerra di Grecia” raccontò in modo mirabile la guerra alla Grecia voluta da Mussolini, cui prese parte come ufficiale di fanteria.

Dal punto di vista politico era un liberal-conservatore alla maniera di Montanelli, anche se ripetto a lui diceva d’esser meno anarchico e più un uomo d’ordine; un moderato nel vero senso del termine. Della sinistra detestava prim’ancora che i politici i suoi intellettuali (in particolar modo Scalfari, Umberto Eco, Giorgio Bocca).

I suoi editoriali e articoli erano impeccabili, pressoché perfetti, ed era in grado di comporli in brevissimo tempo.

A differenza di tanti altri suoi colleghi, Montanelli compreso, leggeva la sua mazzetta di giornali da cima a fondo.

Vittorio Feltri ha scritto che non era “solo un grande giornalista, (…) ma anche una persona di rara probità”.

Uno come lui mancherà molto al mondo del giornalismo, ma ancor di più ai suoi affezionati lettori

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