Storia
Cos’è la sinistra oggi dopo la perdita di Sesto San Giovanni
Norberto Bobbio nel suo fortunato libretto (“Destra e sinistra”, 1994) ci aveva avvisati che la “sinistra” non ha uno statuto ontologico definito e/o definitivo, ossia una specificità sua propria, fissata e data una volta per tutte, ma che è piuttosto una costellazione di idee che viene di volta in volta declinata storicamente. È vero: c’è stata per esempio, ma solo per un breve periodo, una sinistra nazionale e patriottica (De Amicis) molto prima che essa virasse definitivamente verso l’internazionalismo (nel 1917) o il mondialismo (anni ’60). Da allora il patriottismo venne per sempre accantonato, e c’è voluto Ciampi, non un uomo di destra ma un azionista allievo di Guido Calogero, per metterlo al centro dell’attenzione.
La sinistra italiana a differenza di altre sinistre europee ha nutrito forti sentimenti di opposizione al concetto di nazione. Non era un esito necessario questo, visto che l’oggetto costitutivo della sua nascita, non più come tendenza generica ma come ideologia strutturata a partire da Genova 1892 , fu la contrapposizione del lavoro al capitale e visto che “il proletari di tutti il mondo unitevi” fu una parola d’ordine che fece il suo ingresso effettivo nell’agone politico soprattutto con la Grande Guerra. Alcuni storici del fascismo (De Felice e Vivarelli) a partire dalle intuizioni di Angelo Tasca (i lavori di quegli storici hanno come ossatura le intuizioni di Tasca è bene ricordarlo) sosterranno che il fascismo, oltre a costituire sul piano storico l’esito fallimentare del passaggio da una democrazia censitaria (liberale) a quella di massa, fu soprattutto, sul piano politico contingente, una reazione furibonda della borghesia e soprattutto della piccola borghesia, all’oltranzismo socialista che predilesse senza esitazione la “classe” contro la “nazione”, ciò soprattutto nel primo dopoguerra visto che i militanti socialisti (si vedano le vignette satiriche di Scalarini, il Vauro del primo Novecento, nelle vecchie copie dell’Avanti!) consideravano i soldati come dei complici dello Stato imperialista (tutti i soldati, anche il povero soldato analfabeta e socialista siciliano Vincenzo Rabito, vedi il suo bel volume di ricordi).
Anche sul piano economico si potrebbe pensare che la sinistra abbia sempre privilegiato una concezione statalista dell’agire economico (c’è stato un keynesismo implicito in molti leader di sinistra soprattutto quando cessarono di credere ciecamente a una economia di piano di tipo sovietica), e invece abbiamo avuto forti componenti liberiste nella sinistra italiana, dai sindacalisti rivoluzionari a Gaetano Salvemini a Ernesto Rossi, ai radicali (se vogliamo ricomprenderli nella categoria general-generica della sinistra).
Sul piano religioso ci fu un socialismo fortemente antireligioso e anticlericale (come il liberalismo d’altronde) soprattutto a cavallo tra Otto e Novecento (si veda la rivista satirica e anticlericale L’Asino del socialista Podrecca ecc.) mentre nel secondo dopoguerra prevalse un vero e proprio cattocomunismo (grazie all’azione dei Rodano), e lo stesso PCI, che pure aveva iniziato il varo della sua casa editrice Editori Riuniti con un libro di Voltaire, abbandonò ogni pronunciamento antireligioso invocando a sanatoria il discorso della riunificazione delle “masse popolari” italiane. Uno spirito laico, anche libertino e gaudente, rimase appannaggio dei socialisti italiani invece, che trovarono una sponda coraggiosa nei radicali.
Insomma il “concetto” di sinistra, varia secondo i tempi, e talora secondo i luoghi (quello del movimento cooperativo per esempio ebbe caratteristiche soprattutto padane, e contro di esso inveiva il socialista, meridionale e meridionalista Salvemini).
Bobbio nel suo volume sottolinea l’opzione di “uguaglianza” contro quella di “libertà” come elemento dirimente e costitutivo della sinistra. Aggiunge una specifica che è stata sempre sottovalutata da chi ha avuto l’avventura di leggere il suo libretto, ossia la divaricazione tra “estremisti” e “moderati”. Questo contrasto istituisce invero più che “la” sinistra, “le” sinistre. I moderati (Turati, Prampolini, lo stesso Craxi e tutto il socialismo milanese) furono gradualisti e riformisti mentre gli estremisti (il Mussolini del 1913, Serrati, Gramsci giovane, quello che scriveva di “subisso apocalittico” e di “frattura fondamentale”) peroravano la rottura irreversibile, rivoluzionaria. Quest’ultima istanza – la rivoluzione – arrivò fino agli anni ’80 del Novecento trasformandosi da “arma della critica” in “critica delle armi” nelle teste dei Brigatisti rossi (oltre un migliaio di combattenti effettivi), ma quel che più conta, rimanendo come un pensiero nascosto, una riserva mentale, una delle componenti più forti della sinistra intransigente e identitaria sia extraparlamentare che parlamentare (si legga l’ultimo libro di Della Loggia che anche in Berlinguer individua un oppositore strenuo alla liberaldemocrazia e all’economia di mercato).
Ma anche la sinistra, che sulla scia di Bobbio dovremmo definire egualitaria va vista con una certa cautela. La sinistra leninista, per esempio, non crede che tutti gli uomini siano eguali, pensa piuttosto a una élite di “rivoluzionari professionali” che nel partito di massa abbiano funzioni di comando, di guida, di orientamento delle masse. Altro che “uno vale uno”, se mai ha avuto un senso questa bislacca formula. L’élite comunista-leninista era concepita come una casta di bramini, si sarebbe tentati di dire, e in una casta effettiva (nomenklatura, “Nuova classe” la chiamerà Milovan Gilas) si trasformò sia durante gli anni della stagnazione sovietica sia al momento del crollo del socialismo reale. Se si pensa che l’elitismo, teorizzato da autori frettolosamente inquadrati a “destra” come Pareto, Mosca, Michels, sia un tratto reazionario e quindi di “destra”, occorre ricordare, se non bastasse l’elitismo di “sinistra” di Lenin & Co. che anche nella nostra sinistra liberale e democratica ci furono uomini come Guido Dorso che furono elitari (i “cento uomini” che dovevano riscattare il Mezzogiorno).
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Tutto ciò per dire che la sinistra è soggetto magmatico e iridescente quantomeno. Si potrebbe aggiungere che la sinistra è “normativa”: individuato il Sommo Bene lo vorrebbe imporre pedagogicamente con le buone o con le cattive a tutta la società. Che altro elemento forte di discrimine tra destra e sinistra è quello tra individualismo della destra e anti-individualismo della sinistra, o tra competizione di destra e cooperazione di sinistra, e così via distinguendo. Ora, fra tutte le componenti fin qui tratteggiate della sinistra così come “storicamente” si è configurata, quale sarebbe oggi il tratto distintivo della sinistra, che fa gonfiare il petto a colui che dice “io sono di sinistra”? Non si leggono in giro definizioni o meditazioni a tal proposito precise e puntuali. Sembra piuttosto quell’ “io sono di sinistra” un vagheggiamento del tempo che fu, a partire dal ’68 e dalle lotte operaie del ’69, il “sogno di una cosa” non meglio indentificata. La Sinistra-sinistra oggi insiste in maniera vaga sul tratto identitario del “lavoro” (“più lavoro”, “più attenzione ai lavoratori”, “Art.1”) ma al di là della polemica furibonda sui voucher e contro la flexicurity del governo Renzi non spiega come creare lavoro e ricchezza. Quale la sua ricetta produttiva e non meramente distributiva? Ma questo, invero, è stato sempre un tratto distintivo della sinistra-sinistra fin dai tempi dello scontro tra riformisti e massimalisti, ossia una sorta di cultura delle “finalità” piuttosto che delle “modalità”: indicare delle mete ideali e fare segnali nel vuoto sui mezzi per raggiungerle.
Al di là di questi fuochi d’artificio ideologico io credo che oggi la sinistra italiana non si qualifichi in positivo (con quei tratti distintivi, seppur plurali e addirittura contrapposti dentro la sinistra stessa di cui ho parlato finora), ma in negativo e soprattutto la sinistra non è ciò che essa stessa “dice” o, quel che è peggio, “crede” di essere, ma ciò che è “percepita” dagli oppositori, e adesso anche dagli elettori come abbiamo visto nelle elezioni amministrative di domenica scorsa. Ossia una costellazione di idee che ha già scelto nei fatti il proletariato esterno a quello interno; che vorrebbe integrare tutti e non escludere nessuno; che vorrebbe l’abolizione di ogni frontiera non in maniera ottativa, come un pensiero desiderabile, ma nel senso letterale dei termini, ossia sciogliendo il mondo nella nazione; che vorrebbe estendere i diritti di tutti qui e ora, senza gradualismi e senza specificazioni ulteriori, anzi con impazienza e con l’accusa pronta di razzismo contro i dubbiosi o i tiepidi.
Questa sinistra creaturale e francescana credo che oggi sia quella più detestata dalle masse popolari. Forse più a torto che a ragione, ma con le masse c’è poco da discutere soprattutto quando si alternano sul pulpito una volta il papa e una volta il Presidente della Repubblica a invocare coesione, integrazione, accoglienza senza nulla concedere agli strazi che produce una integrazione forzata e soprattutto accelerata nei tempi e nei modi, e finendo perciò con il destare nei ceti popolari una forma di “impazzimento” per mancanza di riconoscimento di un problema, e determinando in automatico, una furibonda reazione uguale e contraria di disintegrazione e di rigetto.
È una sinistra quella di oggi avvertita, come forse è o come non fa nulla per far credere il contrario, estranea se non nemica degli esclusi e delle periferie e amica degli immigrati che arrivano a ondate inarrestabili. E “questa” sinistra, non più distinta da buona parte di elettori fra estremista e moderata, tra gradualisti e “immediatisti”, ma come “la” sinistra, in questi scenari da fine del mondo, appare destinata a perdere, perché oggi è il concetto di “popolo” che si contrappone, nella realtà e nelle intenzioni, a quello di “classe” (elemento privilegiato dell’azione sociale della sinistra fino a ieri). Non più dunque Est contro Ovest, ma Sud contro Nord del mondo. Si dirà che è lo schema dello “scontro delle civiltà” di Samuel P. Huntington? Sì, Huntington, se lo si legge con attenzione, non dice che lo “scontro delle civiltà” è auspicabile o sia un programma politico desiderabile, dice che è inevitabile, che è soprattutto nelle cose presenti e ancor più in quelle future come, aggiungo io, “la lotta di classe” non era una leva propagandistica della sinistra di una volta per incitare gli operai allo scontro, ma un fatto reale, un tragico dato di fatto di ogni giorno, in fabbrica e nella società.
Ci si chiede: si sta forse preparando uno scenario da prefascismo come nei “quattro anni” descritti da Nenni (1919- 1922), e non più sui temi della pace e della guerra, del militarismo e dell’antimilitarismo, della “nazione” contro la “classe, ma su quelli esplosivi dell’immigrazione che nel nostro contesto potrebbero avere lo stesso effetto dirompente della Prima Guerra mondiale? Credo di sì. È uno scenario in cui all’oltranzismo idealistico della sinistra che ha già scelto i “popoli” contro “la classe” o la “nazione” si viene opponendo una furibonda reazione della destra che dopo aver conquistato i cuori e accecato le menti conquisterà prima i seggi del Parlamento prossimo venturo e poi si insedierà per il suo “ventennio”.
Scriveva Vilfredo Pareto nei “Sistemi socialisti” (1902) che mentre nei salotti illuministi si discettava di umanità e di eguaglianza “nel silenzio intanto la ghigliottina si affilava”. A Sesto San Giovanni, la Stalingrado di Italia, insorta non più contro i “padroni” ma contro il progetto della costruzione di una immensa moschea, abbiamo già visto i primi, chiarissimi, segnali del nostro futuro prossimo venturo.
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Nella copertina il rendering della moschea di Sesto San Giovanni
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