Rugby

Vi spiego perché a scuola i ragazzi dovrebbero giocare a rugby

16 Settembre 2015

A scuola i ragazzi dovrebbero giocare a rugby: quando mancano due giorni all’inizio del Mondiale 2015, ospitato là dove questo sport è stato inventato e codificato, il dato di fatto è incontrovertibile (o, se preferite, viziato dalla biografia di chi scrive, rugger not footballer). È una disciplina che allena il fisico e la mente, che obbliga il giocatore ad assumersi responsabilità, ad affinare le abilità e a condividere i momenti belli e brutti con i compagni di squadra perché se una partita di calcio può essere risolta dall’azione di un singolo o da un colpo di fortuna, la probabilità che questo accada nel rugby è minima.

D’altronde è uno sport che non ammette giustificazioni e nemmeno scorciatoie: raramente la squadra più debole vince, a meno che chi è dato per favorito non entri in campo convinto di partecipare ad una gita in campagna senza mettere in preventivo rischi e imprevisti. L’antisportività è severamente punita e a volte, ai provvedimenti disciplinari, si accompagnano sganascioni rifilati direttamente dagli avversarsi come se fossero degli esami di riparazione accelerati.

Basterebbero già come motivazioni per indurre le scuole ad introdurre il rugby nella loro offerta formativa, ma c’è di più: i benefici non sarebbero rivolti solo agli studenti, ma anche al resto dell’ambiente sportivo.

Da una parte il vertice della piramide potrebbe contare su una base solida sulla quale costruire generazioni di atleti in grado di garantire un continuo rinnovamento di giocatori e tecnici, specie per una nazione come l’Italia dove di talento ce n’è, ma mancano i numeri e dove la federazione non sa stendere un piano di lungo termine per assicurare forze fresche da spedire sui fronti più prestigiosi – le competizioni europee tra club e il Six Nations, tra tutte. Siamo un paese di calciatori eppure, ogni anno, si ripresenta il problema di non avere un’apertura affidabile, figuriamoci un paio di sostituti all’altezza, che riescano ad infilare con regolarità i calci di punizione tra i pali: se dovessimo fare il conto dei match persi dalla nazionale per una manciata di punti, dovuti a penalty spediti lontani dalla porta, lo sconforto non farebbe che aumentare.

Dall’altra, ne guadagnerebbe la realizzazione personale.

In Inghilterra e in Galles – e nel resto dell’impero britannico che fu – i legami tra istruzione, club e Union si rafforzano continuamente: le squadre che partecipano ai campionati più importanti come il Pro 12 o il Premiership organizzano sessioni di allenamento con i ragazzi delle squadre di rugby dei college, che hanno così la grande occasione di ricevere consigli e dritte dai loro beniamini; intanto le stesse società si assicurano che i giocatori del settore giovanile proseguano i loro studi, assistiti da tutor e professori che informano la dirigenza sul rendimento tra i banchi: il rugby professionistico corre a ritmi sempre più alti, il logoramento fisico accelera e, oggi come non mai, una buona istruzione è un investimento per programmare il futuro una volta appese le scarpe al chiodo: saper fare qualcosa oltre che placcare e marcare mete, è utile.

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