Legislazione

«Si stanno facendo riforme tanto per farle»

15 Gennaio 2015

Continua il ciclo di interviste de Gli Stati Generali sulle riforme istituzionali promosse dal governo Renzi. Questa volta abbiamo sentito Gennaro Ferraiuolo, professore universitario e ricercatore di Diritto costituzionale nell’Università di Napoli Federico II. Intanto al Senato, si riaccendono le polemiche sulle mosse furtive del governo per accelerare l’iter della nuova legge elettorale, il cosiddetto Italicum. Martedì scorso alle 20, infatti, il governo aveva presentato tre maxi emendamenti sull’Italicum, ma nessuno ha avvertito i senatori circa i tempi strettissimi per la presentazione dei sub emendamenti (ieri alle 23).

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Professor Ferraiuolo, la convincono le riforme del governo Renzi?

Al di là di un giudizio di merito sul contenuto, a me pare che il tema delle riforme sia assunto dal presidente Renzi come un semplice slogan. Passa l’idea per cui è importante fare le riforme quali esse siano, e poco conta se dietro le stesse manchi un solido e coerente disegno. Bisogna dare l’impressione, agli elettori e all’Europa, che qualcosa si muova, che si stia correndo. Secondario è il risultato finale, anche in una prospettiva di lungo periodo.

Non vede una rivoluzione di metodo e di merito?

Il punto critico è proprio questo: c’è un problema di metodo, a prescindere dal modello verso cui ci si orienta. Ho visto nel dibattito dei mesi passati volatilità di soluzioni e improvvisazione nei contenuti. Basti ricordare quello che è successo: si è passati da un disegno di Senato composto prevalentemente da membri espressione dei Comuni, cui si aggiungevano (pochi) rappresentanti regionali e una cospicua “pattuglia” presidenziale, fino ad arrivare a un vero e proprio Senato delle Regioni. Un approdo che può condividersi nella sostanza, non anche per il tortuoso percorso attraverso cui vi si è giunti. Ancora oggi si può nutrire qualche dubbio sul fatto che esista un’intesa politica solida e una idea di fondo condivisa tra le forze che portano avanti la revisione costituzionale, soprattutto se si considera lo stretto intreccio di questa con la modifica della legge elettorale. E comunque i tempi di approvazione si sono sensibilmente dilatati rispetto agli annunci del Presidente del Consiglio.

Una riforma che rischia di perdere i pezzi?

Questo non è possibile prevederlo. Quello che i fatti dicono è che Renzi, già da semplice segretario Pd, dava per risolti i nodi politici intorno alle riforme; oggi la realtà delle cose mi sembra dica altro. Il cosidetto accordo del Nazareno scricchiola e rischiano di esserne stravolti molti dei contenuti originari. Le proposte sulla legge elettorale che circolano in questi giorni si distaccano profondamente dal testo approvato a marzo dalla Camera dei Deputati; nella sostanza si tratta di un nuovo disegno i cui punti caratterizzanti (premio fisso alla lista e soglia di sbarramento al 3%) sono proprio quelli su cui il comunicato congiunto di Renzi e Berlusconi dopo la riunione del 12 novembre dichiara che non si è ancora trovato un accordo.

C’è del metodo in questo modo di procedere?

Forse sul piano della comunicazione c’è una precisa strategia; ma dal punto di vista istituzionale valuto in termini negativa il messaggio del “fare le riforme purché si facciano”. Si rischia di ricadere in errori già commessi in passato. Penso alla modifica del Titolo V del 2001: salutata come una riforma epocale e salvifica, oggi la criticano tutti, anche coloro che la difesero a spada tratta fino all’approvazione parlamentare, avvenuta con un minimo scarto di voti. Con l’emersione di un ulteriore paradosso del riformismo italiano.

Ovvero?

Quel sistema, pieno di imperfezioni e male attuato, viene messo in discussione proprio quando sembrava pervenuto, soprattutto grazie al lavoro della Corte costituzionale, a un certo grado di assestamento. Intendiamoci: possiamo ragionare su tutto, dalla forma di governo ai rapporti fra i livelli territoriali, purché le soluzioni prospettate siano coerenti e bilanciate rispetto a un disegno complessivo. Ecco, oggi è questo disegno complessivo che non riesco a intravedere.

Non ha l’impressione che il progetto attuale di revisione del Titolo V sia un po’ contraddittorio? Da una parte sembra ricentralizzare il potere legislativo, dall’altra vorrebbe creare un Senato regionale

Dobbiamo prima capire che cosa si vuole faccia la Regione. Se è un ente che deve fare leggi, allora va benissimo che la seconda camera rappresenti gli interessi regionali, che funzioni da sede di composizione politica fra i legislatori che operano su diversi livelli territoriali. Se, invece, si vuole che svolga funzioni prevalentemente amministrative, allora potrebbe essere anche sufficiente quello che già c’è, ovvero la Conferenza Stato – Regioni. Se si procedesse meno per slogan e più per obiettivi, sarebbe più facile accordarsi sul modello da preferire.

Si ha, leggendo il testo, l’impressione di una semplificazione del processo legislativo, che passa per il tentativo di ridimensionare radicalmente il ruolo delle Regioni

Da come esce configurato il riparto della funzione legislativa, mi sembra si dia un bel colpo alle Regioni: la reintroduzione di una assai pervasiva clausola di supremazia statale, a prescindere dalla valutazione che se ne voglia dare, ribalta completamente l’idea – forse rimasta tale – affermata nel 2001. La competenza legislativa concorrente Stato-Regioni viene soppressa, ma dubito che questo basti a superare le incertezze del riparto: se analizziamo le singole materie di competenza esclusiva dello Stato troviamo spesso enunciazioni ampie o formule quali “coordinamento” o “norme generali”, che rischiano di far rientrare dalla finestra quello che è appena uscito dalla porta. Non vedo pertanto scongiurato un nuovo e lungo contenzioso rivolto a chiarire “chi fa cosa”.

Anche lei preferisce la palude piuttosto che provare a migliorare il sistema?

Si può essere a favore o contro le soluzioni proposte, ma secondo me il problema, le ripeto, è prima e oltre. Dobbiamo capire che tipo di assetto istituzionale si vuole per il Paese e solo dopo discutere del merito. È fin troppo facile ridurre il dibattito ad uno scontro fra chi è per le riforme e chi le contrasta; fra chi vuole il progresso e chi lo stallo. È una radicalizzazione fuorviante, forse comoda sul piano comunicativo ma che chiude anche alle critiche costruttive. Se ritenere, come ritengo, che allo stato le idee siano molto confuse e le soluzioni parziali significa voler mantenere la palude, allora mi mettano pure tra chi vuole la palude.

Le stesse criticità le rileva anche per la legge elettorale, scommetto.

Anche qui c’è un chiaro slogan su cui Renzi ha costruito l’Italicum, nelle sue diverse versioni: ‘Conoscere chi vince la sera stessa delle elezioni’. Un ‘vincitore chiaro un minuto dopo i risultati’, recita una slide del cosiddetto ‘Italicum 2.0’. L’unica cosa che importa è avere un sistema che permetta di sapere immediatamente chi ha vinto.  Peccato che per far questo andrebbe ripensata non tanto la legge elettorale, quanto piuttosto la forma di governo. Si vota per il Governo e si conosce immediatamente chi vince nei sistemi presidenziali, i quali però a loro volta contemplano tutta una serie di bilanciamenti all’elezione diretta, che possono spingere verso un Presidente e una maggioranza parlamentare politicamente disallineati. Negli Stati Uniti, alla elezione diretta dell’Esecutivo fa da contrappunto un sistema bicamerale che vede i due rami del Parlamento (entrambi direttamente eletti) diversificati dal punto di vista strutturale e grosso modo parificati dal punto di vista delle funzioni; anche sotto il profilo temporale, le elezioni presidenziali e quelle parlamentari sono solo parzialmente coincidenti. E’ sotto gli occhi di tutti il risultato delle recenti elezioni statunitensi di metà mandato: oggi Obama è un presidente senza maggioranza in Parlamento. Vogliamo andare verso quel modello? Se ne discuta, nella consapevolezza che anche il presidenzialismo ha i suoi delicati equilibri, che vanno preservati. Nei sistemi parlamentari come il nostro invece, piaccia o no, l’esito delle elezioni può essere incerto; in tale eventualità fondamentale diviene il processo politico.

Che è sempre più difficile portare avanti.

Appunto. Ecco che allora si chiede alle norme di supplire a quello che la politica non è più in grado di fare, ovvero condurre le mediazioni necessarie ad assicurare l’equilibrio fra governabilità e rappresentanza.  È un dato che nella patria del parlamentarismo e del bipartitismo, il Regno Unito, vi sia attualmente un governo di coalizione post-elettorale. In Germania vige una formula fortemente proporzionale e la stabilità in molti casi deriva – prima che dai congegni previsti a livello costituzionale – dai dettagliati accordi di coalizione attraverso cui le forze di governo si responsabilizzano, dopo il voto, di fronte ai cittadini.

Sono anni che la politica non sa fare più il suo mestiere, Professore. Finché sarà così, sarà allora inutile parlare di riforme?

No, questo no, ma non facciamoci illusioni. Non possiamo credere che la governabilità si ottenga attraverso un sistema elettorale fortemente manipolativo; o che incidere drasticamente sulla rappresentatività della formula – ad esempio con una soglia di sbarramento dell’8% – sia un’operazione risolutiva e priva di costi per il funzionamento democratico del sistema.

Stiamo introducendo un tema cruciale: quello della responsabilizzazione della politica.

Eppure è così che le democrazie mature superano i momenti di impasse, senza drammi. In Paesi come la Germania e il Regno Unito gli accordi di coalizione sono di fondamentale importanza. Il loro rispetto è un importante banco di prova per i partiti che vi prendono parte, per la loro credibilità. Da noi gli accordi si fanno, si disfano, si cambiano a seconda delle contingenti convenienze: culturalmente non si presta attenzione alla formalizzazione degli accordi, né tantomeno ai loro precisi contenuti, che possono restare noti ai soli leader di partiti che li stipulano.

Sono le regole il problema?

In questi anni, ne abbiamo provate diverse, quindi non può essere solo una questione di regole. È la politica che non riesce a produrre buone regole e ad assicurare il rendimento di quelle che ci sono. L’atteggiamento che prevale è quello di scaricare la responsabilità sulle istituzioni, ma gli elementi che hanno bloccato il sistema sono altri, primo tra tutti la qualità della classe politica. Ricorro ancora ad un esempio. A lungo – e ancora oggi – il voto di preferenza è stato considerato uno dei principali mali della democrazia italiana. Quel sistema di voto, per le elezioni politiche, non è più vigente in Italia dal 1993. Si è percepito, in questi anni, un sensibile miglioramento della classe politica? Le tanto celebrate primarie di partito – soprattutto se “aperte” – non sono uno strumento che si presta alle medesime, se non peggiori, degenerazioni imputate al voto di preferenza?

Ma, alla fine, conoscere il governo il giorno delle elezioni si può?

Ripeto: è una frase che in una democrazia parlamentare come la nostra dovrebbe avere senso fino a un certo punto. L’Italicum che vuole Renzi è un sistema che a mio avviso mal si concilia con l’assetto parlamentare. Mi sembra l’ennesimo tentativo di incidere sulla forma di governo attraverso la legislazione ordinaria, forzandone oltremisura i limiti. Si vuole in realtà alterare l’assetto di fondo del parlamentarismo. Se si desidera un altro modello lo si dica espressamente e si operi nelle sedi e con i procedimenti a tal fine necessari.

Un obiettivo, elezione certa, smantella l’altro, ovvero l’eliminazione della seconda Camera.

Nel tempo potrebbero esserci dei problemi di equilibrio. Con un Senato estromesso dal circuito fiduciario, non eletto direttamente, con funzioni limitate, e un’unica Camera, eletta con un sistema fortemente manipolativo, si rischia di compromettere le istituzioni di garanzia.

In che modo?

Semplice: la maggioranza contingente non solo governerebbe il Paese ma avrebbe anche nella sua disponibilità l’elezione degli organi di garanzia, Presidente della Repubblica e Corte costituzionale. L’impostazione del nuovo Italicum, che potrebbe incentrarsi (il condizionale è d’obbligo) sul premio alla lista e non alla coalizione, può aggravare tali problemi.

Sta dicendo che ci potrebbero essere problemi di democraticità?

Magari non con Renzi. Ma il modello delineato rischia di prestarsi a pericolose torsioni, a maggior ragione in una società come la nostra che, politicamente, non mi sembra affatto pacificata. Le contrapposizioni degli ultimi venti anni sono state presentate come scontri epocali, in cui gli avversari si demonizzano e delegittimano reciprocamente. Da questo punto di vista, con l’ascesa del M5S, mi sembra si riproponga ancora lo stesso copione, magari con interpreti diversi.

Tirando un po’ le somme, a suo giudizio basta fare le riforme per far ripartire il Paese?

Di certo non le ritengo sufficienti. Sono temi su cui ragionare, ma senza connotazioni ideologiche e intenti propagandistici. E, soprattutto, avendo ben chiaro il disegno da perseguire e i suoi equilibri. Una modifica della seconda Camera, a mio giudizio, non è più rinviabile se le Regioni devono continuare ad avere peso sul piano legislativo: occorre una sede politica alta, in cui comporre le tensioni tra livelli di governo, evitando di scaricarne tutto il peso sulla Corte costituzionale. Allo stesso tempo, se si intende concentrare la funzione di indirizzo politico in una sola Camera, sarebbe opportuno pensare ad adeguati strumenti di salvaguardia del pluralismo e delle istituzioni di garanzia.

 

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