Religione
Lo spoils system nel nome di Cristo, firmato da Papa Francesco
Papa Francesco ultimamente ha rinunciato alle sfumature: quello che avevo da dire sull’Europa «l’ho detto soavemente a Strasburgo, l’ho detto più fortemente al Premio Carlo Magno, e ultimamente senza nuances…». Anche l’attività di governo ha subito un’accelerazione brusca, dalle nomine in Curia alla creazione di nuovi cardinali ai dossier più delicati. Lo stile di Jorge Mario Bergoglio mescola coinvolgimento collegiale e scelte solitarie, avvio di processi di lungo periodo e decisioni repentine, misericordia e bastonate.
Certo c’è il temperamento dell’uomo, un certo retrogusto peronista, addirittura l’eco di un modo «autoritario e rapido di prendere decisioni». Lo stesso stile, ha ammesso, che aveva da giovane provinciale dei gesuiti argentini. Ma si tratta, più fondamentalmente, delle contraddizioni di un uomo che ha scelto il nome di san Francesco, per significare che la Chiesa si riforma dal basso, ma è Pontefice romano e deve guidare la riforma dal suo vertice. Un padre che cerca di rianimare il «popolo di Dio» in un’epoca in cui il popolo vota Trump, Brexit, o è comunque distratto sulle verità di fede. Un sovrano che ha voluto imporre la democrazia con atto d’imperio, quasi napoleonico, quando ha chiesto alla Conferenza episcopale italiana di eleggere il proprio presidente anziché accettare una nomina calata dall’alto, dal vescovo di Roma, primate d’Italia.
Sulla modernità, sui poveri, sulla sessualità e sulla presenza stessa della Chiesa nel mondo, Bergoglio ha ripreso il discorso dove l’aveva lasciato Paolo VI alla fine del Concilio Vaticano II, prima della lunga epopea wojtyliana e degli anni ratzingeriani che ne hanno costituito al contempo propaggine e contraddizione, in un’era che culturalmente, moralmente e spiritualmente, dista molto più dei cinquant’anni che sono passati. Un lavoro che il Papa affronta pazientemente, consapevole che a lui tocca seminare ed altri raccoglieranno, battendo e ribattendo su certi concetti come un padre spirituale infaticabile, facendo ricorso a tutto l’armamentario gesuitico per mantenere improbabili equilibri. E poi, all’improvviso, strappa, decide, recide.
L’opposizione a Francesco è aperta. Non è mai successo che quattro cardinali – tre dopo il decesso di Joachim Meisner il 5 luglio – contestassero apertamente un pontefice per un documento magisteriale, l’Amoris laetitia, con tanto di richiamo su manifesti misteriosamente apparsi di notte sui muri di Roma e convegni organizzati, senza l’ombra della censura, a Via della Conciliazione. Tornano i sedevacantisti, blog e social media pullulano di insulti. Ma Jorge Mario Bergoglio non indietreggia. Il livello dello scontro si innalza col passare del tempo. Perplessità e distinguo prendono corpo anche tra personalità e ambienti non ostili pregiudizialmente al Papa latino-americano.
Il Papa – e questa è forse l’impronta più inequivocabile della riforma bergogliana – procede a spron battuto nella creazione di nuovi cardinali ignorando bellamente etichette geo-ecclesiali, prassi consolidate, equilibri diplomatici. Ha lasciato scoperte tradizionali sedi cardinalizie come Venezia, Genova, Palermo. Ha ripetutamente negato la berretta rossa a capidicastero della Curia romana (mons. Rino Fisichella, mons. Vincenzo Paglia). Ha premiato diocesi secondarie (Perugia o Agrigento in Italia, negli Stati Uniti Newark e non Philadelphia, ad Haiti Les Cayes anziché Port-au-Prince, per non parlare della decisione inedita di elevare al cardinalato il nunzio apostolico della martoriata Siria paesi che non hanno mai avuto un cardinale (da ultimo El Salvador, Svezia, Mali, Laos). Ha preferito pastori amati dal gregge più che dalle gerarchie: lo smacco più grande, a giugno, è stata la berretta cardinalizia a Gregorio Rosa Chavez, a suo tempo collaboratore del vescovo Oscar Romero, martire e beato, oggi ausiliare del Salvador, che ha così scavalcato nella gerarchia il suo diretto superiore, l’arcivescovo titolare José Luis Escobar Alas. Con i suoi quattro concistori ha raggiunto quasi la metà del collegio cardinalizio che un giorno sceglierà il suo successore. Da quando è stato eletto l’Europa ha perso il sette per cento della sua rappresentanza nel collegio elettorale, l’Africa e l’Asia hanno guadagnato il tre per cento. L’Italia, va sottolineato, è rimasta stabile.
Da Paolo VI in poi il numero dei cardinali elettori, ossia porporati che con meno di 80 anni hanno diritto ad entrare in Cappella Sistina al momento di eleggere un nuovo Papa, non deve superare significativamente la soglia di 120. Tetto superato di appena un’unita quando con l’ultimo Concistoro, che ha celebrato lo scorso 28 giugno, Francesco ha elevato a dignità cardinalizia solo cinque nuovi cardinali (nessun italiano, nessun romano). Poteva attendere un altro annetto, giugno del 2018, e avrebbe avuto 13 caselle libere, un numero più consono a un Concistoro tradizionale. Ma Jorge Mario Bergoglio, 81 anni a dicembre, evidentemente non vuole perder tempo.
È stato eletto da un Conclave di emergenza per riformare il Vaticano scosso dagli scandali, e dalle dimissioni choc di Benedetto XVI, e rilanciare la Chiesa cattolica. «Non è l’ora di chiudere la nostra storia», ha detto di recente ad una messa per i 25 anni di sacerdozio. Non si dimetterà, quanto meno non prima di aver reso irreversibile la sua riforma.
«Sono felice che stia aumentando la probabilità che il prossimo Papa sarà come lui, e tutti i miei amici progressisti sono sicuramente contenti con queste nomine», ha scritto con franchezza il gesuita statunitense Thomas Reese sul National Catholic Reporter. «Ma poi devo essere onesto con me stesso e domandarmi: “Come reagirei se Papa Giovanni Paolo o Papa Benedetto avessero fatto lo stesso?”. Sinceramente sarei arrabbiato. I progressisti lo avrebbero visto come l’ennesimo esempio della centralizzazione papale e della vecchia guardia che si aggrappa al potere. Mettiamola diversamente, ipotizziamo che il prossimo Conclave sia l’opposto dell’ultimo. Ipotizziamo che faccia un errore ed elegga qualcuno che i cardinali pensano sia un progressista o un moderato e in realtà è un reazionario. A quel punto potrà usare il precedente di Francesco per riempire il collegio dei cardinali con reazionari. Confesso che, nonostante le mie riserve, incoraggerei Francesco a fare esattamente quel che ha fatto, ma lo avrei avvertito delle possibili conseguenze negative. Tutto ciò ci ricorda che ogni riforma può avere conseguenze inintenzionali».
Ogni riforma ha i suoi contraccolpi. Tanto più quando accelera, quando alle parole seguono i fatti. Il consiglio dei nove cardinali che lo coadiuvano nella riforma della Curia romana, il cosiddetto C9, dopo essersi lungamente occupato di restyling(la fusione dei pontifici consigli, la nascita di nuovi super-dicasteri) ed aver dato il via libera ad una ristrutturazione dei media vaticani che provoca non pochi malumori interni (Radio vaticana, Osservatore Romano, Centro televisivo vaticano, sala stampa della Santa Sede, tipografia vaticana, Libreria editrice vaticana), ha finalmente messo il naso sulla questione clou, la «sana decentralizzazione» del potere romano, la devolution di alcune potestà alle conferenze episcopali nazionali, il ribaltamento della procedura per nominare i nuovi vescovi, non più a partire dai desiderata di Roma ma con il coinvolgimento delle istanze locali, laici non esclusi. Si vedrà quale sarà il risultato. Il punto è nodale. E il Papa gesuita ha le idee piuttosto chiare: «Abbiamo visto – ha detto a conclusione del doppio Sinodo sulla famiglia che si è svolto nel 2014 e 2015 – che quanto sembra normale per un vescovo di un continente, può risultare strano, quasi come uno scandalo – quasi! – per il vescovo di un altro continente; ciò che viene considerato violazione di un diritto in una società, può essere precetto ovvio e intangibile in un’altra; ciò che per alcuni è libertà di coscienza, per altri può essere solo confusione. In realtà, le culture sono molto diverse tra loro e ogni principio generale – le questioni dogmatiche ben definite dal Magistero della Chiesa – ogni principio generale ha bisogno di essere inculturato, se vuole essere osservato e applicato». Probabilmente con questa idea in testa, il Pontefice ha prospettato la convocazione di un sinodo sull’Amazzonia: non, dunque, rappresentativo di tutta la cattolicità, ma di quei paesi latino-americani dove la foresta si estende. E dove c’è sintonia su alcuni temi: l’ecologia, la critica al liberismo, la necessità di ordinare se non preti sposati, almeno viri probati, uomini sposati di provata fede che possano svolgere funzioni diaconali, se non sacerdotali, quali l’amministrazione dei sacramenti in un territorio vastissimo dove altrimenti i fedeli rischiano di non comunicarsi per mesi. Un tema sul quale Francesco si è mostrato possibilista per la prima volta in una recente intervista al settimanale tedesco Die Zeit che ha entusiasmato la Chiesa tedesca ed ha fatto sobbalzare più di un monsignore di Curia. Così come è andata di traverso a più d’uno, a Roma, la decisione di creare una commissione sul diaconato femminile, affidata alla saggia guida del gesuita spagnolo Luis Francisco Ladaria, peraltro dalla scorsa settimana prefetto della congregazione per la Dottrina della fede, e la decisione, subito registrata con allarme dai blog conservatori, di creare, come ha spiegato bene il francese La Croix, una commissione per studiare negli archivi la genesi della controversa Humanae vitae, l’enciclica di Paolo VI ingenerosamente passata alla storia come la lettera sulla pillola contraccettiva.
Jorge Mario Bergoglio, insomma, muove le cose. Non sono solo parole. E non è solo brillante politica estera, le mediazioni vaticane a Cuba e nel resto dell’America Latina, lo scontro con Donald Trump, il riavvicinamento a Cina, Iran, Russia, paese quest’ultimo dove il cardinale Segretario di Stato Pietro Parolin si recherà in visita quasi certamente nel mese di agosto. Il Pontefice romano governa il Vaticano energicamente.
Gli inciampi certo non mancano. La riforma delle finanze vaticane segna il passo. Sicuramente cambiare la mentalità e addrizzare il rapporto tra vita religiosa e denaro è la vera sfida che un Papa deve vincere, e prende tempo. E sicuramente, con Benedetto XVI prima e con Francesco poi, il Vaticano ha smesso di essere la lavatrice di denaro sporco della porta accanto per politici e affaristi italiani. Smette di essere, pian piano, la cuccagna immobiliare del generone romano o il serbatoio di assunzioni e benefit di reti familiari e parentali della capitale. Ma, complice l’inesperienza iniziale e la fretta creata da nuovi scandali finanziari, in particolare l’arresto del monsignore salernitano Nunzio Scarano, Francesco, a inizio pontificato, ha preso decisioni che poi si è rimangiato. Ha sbagliato un paio di nomine, come emerso con i «vatileaks», la fuga di documenti riservati ad opera di whistleblowers che lui stesso aveva scelto. Ha scelto un revisore dei conti di alto profilo, Libero Milone, italiano ma con curriculum internazionale, bene accetto da tutti e nove i cardinali del C9, ma a fine giugno lo ha licenziato con tre anni di anticipo e senza che il Vaticano ne spiegasse le ragioni. Ha prima avallato, poi smentito l’idea di una centralizzazione degli investimenti mobiliari e immobiliari promossa dal cardinale George Pell, il prefetto della Segreteria per l’Economia.
Il quale, nei giorni scorsi, ha fatto le valigie. Solo per un periodi di congedo, che Jorge Mario Bergoglio gli ha gentilmente «concesso» per difendersi dall’accusa di pedofilia di cui lo ha incriminato la polizia di Victoria. Grande elettore di Bergoglio al Conclave del 2013, il porporato australiano era subito entrato in rotta di collisione con la pancia italiana della Curia romana, e su questioni che da sempre aizzano gli spiriti: lo Ior, i bilanci vaticani, gli investimenti mobili e immobili di Santa romana Chiesa. Si era allargato troppo, ritenendosi una specie di vicepapa delle finanze, e Jorge Mario Bergoglio nel corso dei mesi lo ha ridimensionato. Conservatore convinto, ha criticato apertamente il Papa sull’enciclica ecologica, Laudato si’, sul sinodo sulla famiglia, sulla Amoris laetitia. Adesso torna a Sidney, e c’è da giurare che il Papa non perda di vista il fatto che tra un anno scade il suo incarico quinquennale – e un anno passa presto. Per un altro cardinale, intanto, l’italiano Domenico Calcagno, prefetto della potente Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica, arcinemico di Pell, la magistratura italiana ha inviato al Vaticano una rogatoria per una intricata vicenda di investimenti immobiliari. E anche un altro cardinale italiano a capo di un dicastero ricco e potente, Fernando Filoni, prefetto di Propaganda fide, dicastero sfuggito sinora a ogni controllo finanziario centralizzato, in Vaticano si mormora che non sia più saldamente in sella. Il risultato finale potrebbe essere uno spoils system radicale negli organismi economici ed amministrativi dello Stato pontificio, e c’è da scommettere che, in un delicato equilibrio tra nazionalità, statunitensi e tedeschi, notoriamente i maggiori benefattori della casse vaticane, non rimarranno fuori dalla stanza dei bottoni.
In Italia, intanto, Papa Francesco in poche settimane ha cambiato il volto dei vertici della Conferenza episcopale italiana. Ha scelto il cordiale arcivescovo di Perugia, il cordiale Gualtiero Bassetti, grande estimatore sin da giovane di don Lorenzo Milani, al posto dell’algido Angelo Bagnasco; il mite Angelo De Donatis al Vicariato di Roma, fino a due anni fa semplice prete amato da tutti, al posto del grigio canonista Agostino Vallini. Per la sede di Milano, lasciata da Angelo Scola, il cardinale che la Cei sognava Papa al posto dell’arcivescovo di Buenos Aires, è stato scelto Mario Delpini, 66 anni il 29 luglio, già vescovo ausiliare della diocesi ambrosiana. Ben oltre un terzo dell’episcopato italiano è stato nominato ormai dal Papa argentino.
Jorge Mario Bergoglio imprime la sua impronta sulla Chiesa cattolica mondiale. Lo fa a tratti con durezza. Dopo quattro anni di pontificato, del resto, la riforma o restava una promessa senza conseguenze o una realtà che rompe gli equilibri. O deludeva i riformisti o i conservatori. E ultimamente, senza tante sfumature, il Papa sembra aver scelto campo.
Il caso più eclatante è quello del prepensionamento del cardinale Gerhard Ludwig Mueller. Che Jorge Mario Bergoglio ha giubilato al compimento esatto del mandato quinquennale, senza perdere neppure un giorno, nonostante il porporato abbia solo 69 anni, cioè sei meno dell’età canonica per lasciare la guida di un dicastero vaticano. Il porporato tedesco era uno dei capofila della resistenza interna al Papa, resistenza peraltro moderata tanto da suscitare lo sdegno di chi, come Roberto De Mattei, che sul sito Corrispondenza Romana ha dato in anteprima la notizia del suo licenziamento, ha sentenziato, il giorno dopo in prima pagina del quotidiano romano Il Tempo, che «chi non combatte per non perdere, dopo il cedimento conosce la sconfitta».
Ad ogni modo non era mai accaduto che il prefetto della «suprema» congregazione per la Dottrina della fede, l’ex Santo Uffizio, tutore dell’ortodossia cattolica, lasciasse l’incarico in modo così irrituale. Segno di una divergenza irrimediabile su almeno tre temi. Sulla gestione degli abusi sessuali del clero sui minori, sicuramente, i cui processi canonici sono responsabilità della congregazione. Marie Collins, donna irlandese che da bambina fu violata da un prete, ha lasciato la Pontificia commissione per la tutela dei minori nella quale papa Francesco l’ha nominata denunciando il sistematico boicottaggio della Dottrina della fede verso ogni proposta sulla prevenzione della pedofilia. «Ha fatto questa accusa, e un po’ di ragione ce l’ha», ha commentato il Papa a maggio. Per il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, la signora irlandese ha voluto «scuotere l’albero». E alla fine è caduto Mueller. Il quale, inoltre, faceva da contrappunto, anche pubblicamente, alle aperture del Papa in materia di pastorale famigliare. Arrivando a dire che l’esortazione apostolica Familiaris consortio di Giovanni Paolo II «non è superabile» e quella di Francesco Amoris laetitita «va chiaramente interpretata alla luce di tutta la dottrina della Chiesa». Ora, per quanto non manchino punti di continuità tra Karol Wojtyla e Jorge Mario Bergoglio, il Papa polacco negava categoricamente la possibilità di ammettere alla comunione alle coppie di divorziati risposati mentre il Pontefice argentino – solo in alcuni casi, solo dopo un attento discernimento, solo in seguito a sincero pentimento, e, comunque, solo in una nota a piè di pagina dell’Amoris laetitia, scelta editoriale che non ha facilitato la chiarezza del dibattito – la ammette.
L’ufficialità vaticana tenta di smentirlo ma i due documenti papali sono in contraddizione. Nella storia della Chiesa succede. Il Concilio Vaticano II (1962-1965), per dire, che ha aggiornato il cattolicesimo, tante cose conferma ma contraddice palesemente il magistero precedente sulla libertà religiosa. Tanto da avere scatenato la decisione dei seguaci ultratradizionalisti di monsignor Marcel Lefebvre a scindersi dalla Chiesa cattolica fintantoché essa non tornerà sui suoi passi. Ed ecco il terzo dei motivi di incomprensione tra Mueller e il Papa. Il più paradossale. Jorge Mario Bergoglio vuole riportare i lefebvriani nella Chiesa cattolica. Il Papa riformatore tiene la porta aperta ai cattolici più integristi. Gerhard Ludwig Mueller li ha sempre tenuti a distanza. Da arcivescovo di Ratisbona propose la chiusura del seminario di Zeitkofen dove il vescovo Richard Williamson formulò i suoi pronunciamenti negazionisti e antisemiti, ha sostenuto che i quattro vescovi ordinati da Lefebvre a cui Benedetto XVI ha revocato la scomunica «dovrebbero dimettersi e non dovrebbero parlare in pubblico di questioni politiche ed ecclesiastiche».
Subito dopo essere stato nominato da Joseph Ratzinger all’ex Santo Uffizio, Mueller fu bersagliato dai lefebvriani che andarono a scovare un passaggio della sua «Dogmatica cattolica» per sostenere che fosse eretico poiché «nega il dogma della verginità di Maria» dopo il parto di Gesù – oltraggio per il quale, peraltro, quattro secoli prima sant’Ignazio di Loyola per poco non sgozzò un miscredente. «Abbiamo il problema di gruppi — di destra o di sinistra, come si usa dire — che occupano molto del nostro tempo e della nostra attenzione», dichiarò in occasione della nomina cinque anni fa. Un centrismo agli antipodi di Jorge Mario Bergoglio.
Il quale, in realtà, sembra voler chiudere per sempre l’epoca di Giovanni Paolo II per riprendere il filo del Concilio Vaticano II. Karol Wojtyla impose un’idea esclusiva di Chiesa, poi evoluta con Benedetto XVI che ha coltivato l’idea di un cristianesimo minoritario ma «luce del mondo» e «sale della terra». Il Pontefice polacco sanzionò a sinistra la teologia della liberazione, a destra i lefebvriani.
Francesco si ispira alla figura geometrica del poliedro per affermare che la cattolicità ha un futuro solo se in essa convivono senza omologarsi posizioni teologiche, culturali, geografiche disparate. Ha archiviato i dissapori tra il Vaticano e i teologi liberazionisti latino-americani così come punta a far rientrare i lefebvriani in seno alla Chiesa. Non vuole creare nuovi scismi, ma suturare quelli passati. Un progetto che in realtà va oltre il perimetro della Chiesa cattolica se si guarda all’impegno che il Papa argentino pone nel definitivamente alle spalle i due grandi scismi cristiani dell’epoca passata, quello con l’Ortodossia del 1054 e quello con il Protestantesimo del 1500. Francesco ha incontrato il patriarca russo Kirill, stesse posizioni conservatrici di Vladimir Putin e ha reso omaggio in Svezia a Lutero nei 500 anni della Riforma; ha stretto amicizia col patriarca ecumenico ortodosso Bartolomeo e con il primate anglicano Justin Welby, stessa sensibilità sull’ecologia o la critica al capitalismo, e incontra al Circo Massimo i pentecostali, molti di loro lontani da ogni traccia di progressismo.
Jorge Mario Bergoglio ultimamente ha deciso di accelerare. Vuole una Chiesa aperta ai lontani e a coloro che si sono allontanati, ai peccatori non meno che ai più ortodossi, aperta a destra e a sinistra, aperta a cattolici e non cattolici. Includere. Includere per tornare ad avere una cattolicità vivace, centrale nella galassia della cristianità, protagonista della storia e della società. Includere ad ogni costo: anche, paradossalmente, al costo di escludere chi vuole tornare indietro.
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