Questioni di genere

La triste, confusa mentalità dietro al piano nazionale per la fertilità

2 Settembre 2016

Oltre alle immagini di donne che con una mano reggono un’inclemente clessidra e con l’altra si toccano un ventre ancora (tristemente) vuoto, dietro al Fertility day c’è dell’altro. Ovvero un Piano nazionale del Ministero della Salute rivolto a tutti, uomini e donne, per “collocare la Fertilità al centro delle politiche sanitarie ed educative del nostro Paese”. Con un obbiettivo: non trattare la fertilità come un problema solo femminile ma piuttosto, giustamente, di salute pubblica.

In realtà si tratta di una lettura molto interessante. Innanzitutto perché, come si scopre dopo poche pagine, è stato preparato da un Tavolo consultivo in cui gli uomini erano quasi il doppio delle donne: 17 contro 10. E poi perché, prima di fornire informazioni sanitarie sulla tutela della fertilità in generale, pare voler individuare le cause sociali più profonde del basso tasso di fecondità (cioè del numero di figli per donna) in Italia.

Cause che, nelle parole del Tavolo consultivo, sarebberouna maggiore vulnerabilità sul piano della sicurezza economica, la crisi di valori che facciano da modelli, funzionamenti narcisistici, la tendenza a privilegiare la propria realizzazione, personale e professionale, incapacità e paure ad assumersi le responsabilità genitoriali”. E sebbene alcuni passaggi del testo, come quello appena citato, lascino in effetti intravedere un accenno di parità di genere (nella parola “genitoriali”), nel complesso il piano appare a dir poco sbilanciato. Basti pensare che le parole “genitorialità” e “paternità” appaiono nel testo rispettivamente 12 e 9 volte, mentre di “maternità” si parla ben 58 volte.

E basti pensare a frasi come questa: “La crescita del livello di istruzione per le donne ha avuto come effetto sia il ritardo nella formazione di nuovi nuclei familiari, sia un vero e proprio minore investimento psicologico nel rapporto di coppia, per il raggiungimento dell’indipendenza economica e sociale”. Quindi le italiane procreerebbero di meno perché studiano di più.

«In sostanza questo significa che lo Stato italiano ritiene che l’aumento dell’istruzione femminile sia stato un pessimo investimento – dice Paola Di Nicola, docente di sociologia della famiglia all’Università di Verona –. In controtendenza, tra l’altro, rispetto a tutte le più recenti ricerche, che vedono proprio nell’aumento della scolarizzazione femminile uno dei fattori fondamentali dello sviluppo sociale ed economico di una nazione».

Secondo Paola Profeta, docente associata del dipartimento di analisi delle politiche e management pubblico all’università Bocconi, «è piuttosto pericoloso parlare di relazione causa-effetto tra fecondità e livelli d’istruzione. È il contesto ad essere penalizzante in Italia, anche a livello delle dinamiche di coppia. Il peso della cura dei bambini è rimasto molto sbilanciato a sfavore delle donne, che però ormai hanno anche un ruolo all’esterno della sfera famigliare».

I dati parlano chiaro. Secondo l’OCSE, in paesi come Danimarca e Norvegia la popolazione è in generale più istruita rispetto alla nostra, ma è dal 1979 che si fanno anche più figli che in Italia.

Ciò è vero nonostante Danimarca e Norvegia siano tra i paesi della zona OCSE dove le donne hanno livelli di istruzione persino più alti dei loro compatrioti maschi. Anche l’Italia è tra questi, ma ha comunque tassi di fecondità più bassi di Danimarca e Norvegia.

«Non esiste una relazione causa-effetto tra il livello d’istruzione femminile e i tassi di fecondità – nota Profeta – Tant’è vero che in contesti più favorevoli, dove c’è un maggiore equilibrio tra uomini e donne nella gestione dei figli, dove la nascita di un figlio non è vista come qualcosa che riguarda solo la madre, e dove ci sono delle politiche che sostengono tutto questo, si trovano cittadini molto istruiti e anche tassi di fertilità più alti del nostro. Il punto è che per realizzare contesti simili bisogna investire. Non tanto su campagne pubblicitarie, ma proprio sugli asili, i congedi di paternità, il maggior coinvolgimento dei padri, e in generale sull’assistenza alla prima infanzia».

Anche Di Nicola è d’accordo. «La questione della fecondità è strettamente legata ai percorsi di vita, soprattutto lavorativi, delle donne e in generale dei giovani – sottolinea – nonché al fatto che in Italia non esiste una politica reale e concreta di sostegno alle responsabilità genitoriali. Ancora una volta si pensa di risolvere il problema rimandando la soluzione alle donne. Mi pare un atteggiamento scorretto e colpevolizzante, che ignora completamente i reali motivi che sono alla base dello spostamento in avanti del momento di generare un figlio».

Che l’alto livello d’istruzione delle donne influisca sulla loro decisione di rimandare la messa in cantiere di uno o più figli è senz’altro vero secondo Alessandra Casarico, docente di scienza delle finanze Bocconi, ma ci sono delle sfumature. «Naturalmente l’investimento in istruzione da parte delle donne ha cambiato la loro pianificazione, perché non si vedono più realizzate solo all’interno della famiglia, ma anche sul lavoro».

Fertility-Day 1

«Però non è che non ci sia desiderio di genitorialità – continua la docente –. La fecondità desiderata in Italia è sempre più o meno pari a 2 figli per donna, solo che poi quella realizzata è più bassa. Il punto è che cercare di tenere insieme i due aspetti, famigliare e lavorativo, per una donna è molto complicato. Non vorrei che venisse fuori un messaggio colpevolizzante del tipo: “ecco, colpa delle donne che studiano di più e non hanno più interesse ad avere una famiglia”». Infine, per Casarico creare le condizioni che permettano alle donne di partecipare al mercato del lavoro può avere delle ripercussioni positive anche sul tasso di fecondità.

Sia chiaro, in alcuni passaggi anche il Piano per la fertilità indica la necessità di un welfare più attento alla genitorialità. Si legge ad esempio che “impegnarsi per un welfare e anche per progetti di sostegno economico alla natalità (vedi bonus bebè, detrazioni fiscali, forme di lavoro flessibile, maggiore uso del congedo parentale per gli uomini, presenza capillare di nidi aziendali, ecc) non deve essere visto come una sorta di “compensazione” per il “disagio”, ma come un atto di responsabilità e giustizia sociale”.

Si riconosce anche la difficoltà della conciliazione tra lavoro e genitorialità, per le donne: “Le giovani donne sanno che nei colloqui per ottenere un posto di lavoro o un avanzamento di carriera gioca un ruolo negativo il fatto che siano in età potenzialmente fertile o addirittura il fatto di avere già dei figli”.

Tuttavia si trovano anche frasi, molte in realtà, che riaffermano lo stereotipo delle madri come prime (e quasi uniche) responsabili della cura dei figli. Secondo i componenti del Tavolo consultivo, infatti, la maternità dovrebbe costituire un punto a favore delle donne nel loro curriculum. Il motivo? “L’organizzazione ingegnosa che serve a far quadrare il ritmo delle giornate di una mamma, la flessibilità necessaria a gestire gli imprevisti, la responsabilità e le scelte implicite nel lavoro di cura, le energie che quotidianamente mette in campo una madre sono competenze e potenziali ancora da esplorare e capire come incentivare e utilizzare al rientro al lavoro”.

Un tono francamente paternalista e condiscendente, che si percepisce anche in altri punti del piano. Ad esempio in domande come questa: “Cosa fare, dunque, di fronte ad una società che ha scortato le donne fuori di casa, aprendo loro le porte nel mondo del lavoro sospingendole, però, verso ruoli maschili, che hanno comportato anche un allontanamento dal desiderio stesso di maternità?

A leggerla così sembra che non siano mai esistite le lotte femministe. Pare che un giorno le donne abbiano semplicemente chiesto di non essere più relegate al focolare domestico, e che a questa richiesta gli uomini abbiano risposto tendendo una cavalleresca mano per scortarle fuori e guidarle nel mondo. Che non sia andata così è ben noto. E sembra pure che essere maschi significhi non sentire mai il desiderio di mettere al mondo dei figli, che quel desiderio sia una prerogativa esclusivamente femminile. Sappiamo che neanche questo è vero.

In una parte comunque, bisogna riconoscerlo, il piano è riuscito a riflettere molto bene la situazione in cui si trovano oggi tante giovani: “La trasformazione e l’emancipazione del ruolo della donna nella società non ha sostituito l’approccio tradizionale, piuttosto sembra sia andato a soprapporvisi, con il risultato di far sussistere modelli contraddittori che impongono delle scelte. Le donne si trovano all’angolo, in quello che viene definito in psicologia ‘doppio legame’. Si tratta di una condizione entro la quale qualunque scelta fatta è una scelta sbagliata”.

Però sembra un po’ troppo poco, troppo tardi.

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