Questioni di genere
Ragazze, #quellavoltache, raccontatela
E’ successo anche a me. Non l’ho mai raccontato davvero. Solo a mio marito qualche mese fa. Nessuna violenza fisica, neanche lontanamente. Solo insinuazioni. Solo proposte. Solo tentate carezze sulla guancia. Solo occhiate e momenti di imbarazzo. Ma per capire che quel “solo” in realtà era una molestia e un abuso di potere ci ho messo quasi dieci anni. Ho dovuto vedere un film, parlarne in analisi, leggere i racconti di altre donne. E solo ad un certo punto i miei occhi hanno guardato la cosa in modo diverso.
Era otto anni fa e avevo venticinque anni. Abitavo a Roma e cominciavo a lavorare. Stage non pagati, master nel weekend, una voglia pazzesca di trovare il lavoro dei sogni. Lui era un grande avvocato. Si occupava di diritti umani, in particolare di disparità di genere nei paesi del sud del mondo. Che ridere. Se la si mettesse in una sceneggiatura di una serie TV la respingerebbero come troppo assurda. Era un luminare, era incredibilmente rispettato ed era molto più vecchio di me. Oggi non c’è più. Qualche mese fa l’ho cercato su google e ho visto che era venuto a mancare. Per questo non farò il suo nome, non può farlo più.
Un’organizzazione di diritti umani. Il lavoro dei sogni.
Mi chiese se potevo fargli compagnia. Fargli compagnia. Usò proprio questa espressione. Che ero sola a Roma, ero appena arrivata. Che gli piacevano le mostre e voleva andare al cinema. Se potevo accompagnarlo. Se potevamo andare a passeggio qualche volta insieme e magari cenare insieme a casa sua. Ti piacciono le mostre vero? Me lo chiedeva prendendomi sotto braccia. Poi accarezzandomi la guancia. Con affetto Caterina. Certo. E nel frattempo mi dava consigli sulla carriera dicendomi quanto sarebbe stato bello se fossi venuta a lavorare da loro. Quanto sarebbe bello averti con noi.
E io tornavo a casa, lo raccontavo in modo maldestro al mio ragazzo di quell’epoca e cercavo di trovare delle giustificazioni. Si: io. In fondo lo faceva per galanteria. E si devono conoscere meglio le persone. E in fondo era solo un invito. E se risultavo troppo rigida cosa sarebbe successo. Forse era mio dovere accettare. Volevano offrirmi un lavoro, ci stava che volesse saperne di più di me. E una volta sola non sarebbe mica stato un problema. Ed era scortese rifiutare. E, e, e …
Il mio ragazzo si infuriò, litigammo. Ma quante storie che fai, è il mio lavoro. E faccio quello che voglio, sono grande abbastanza, la gestisco. Sei solo geloso. Non ti fidi di me.
Ma alla fine la vocina dentro di me ebbe la meglio e rifiutai. La prima, la seconda, la terza volta, rifiutai sempre. E al terzo rifiuto non si fece più sentire. E non fu mai bello avermi con loro perché nessuna offerta di lavoro mai arrivò.
Non lo esplicitai, neanche a me stessa. Non lo raccontai. Liquidai la cosa dentro di me senza dargli un nome. Qualche mese dopo mio padre ebbe un incidente d’auto e morì, lasciai Roma per sempre e non ci pensai più.
Qualche mese fa ero solo a casa e su Sky davano un film sulla storia vera della donna che denunciò il giudice della corte suprema statunitense per molestie sessuali. Il racconto mi ha colpito parecchio anche perché raccontava di come le molestie possono essere diverse, alcune solo verbali, altre fisiche, altre tentate ma non riuscite.
Sono rimasta incollata allo schermo con lo sguardo fisso, anche per molto tempo dopo la fine del film. Era di colpo tornato tutto indietro. Quelle sensazioni, il ricordo nitido dell’imbarazzo. La percezione quasi fisica di qualcosa di viscido e di sporco. E ho pensato, oh cazzo ma è successo pure a me.
Quella sera nei miei ricordi gli episodi sono addirittura diventati più grandi e spaventosi della realtà. Ho pianto, liberando un puntino nero dentro di me mai davvero affrontato.
Poi ne ho parlato in analisi. Ne ho parlato con mio marito e ora non è né troppo grande né troppo piccola. È quello che è. Un abuso di potere di un uomo più anziano in una posizione di forza che approfitta della sua posizione per fare avance inappropriate alludendo subdolamente a possibilità di carriera che si possono aprire grazie a lui. Una molestia, mai sfociata in qualcosa di grave e che non ha determinato né traumi né particolari impedimenti professionali. Ma non posso fare a meno di pensare cosa sarebbe successo se fossi stata anche solo un poco più fragile. Avevo una famiglia dietro e gli stage non pagati in altri posti me li potevo permettere. A Roma non ero davvero sola. Vengo da un contesto di informazione e cultura – anche se pensandoci adesso è incredibile quanto poco le molestie fossero un argomento di discussione tra noi giovani donne, anche solo otto anni fa.
Alla fine, ho imparato due cose.
Uno. Ragazze non sottovalutate nulla. Quel commento, quel buffetto sulla guancia, quella proposta fuori luogo. Sono violazioni. Punto. E magari non avete gli strumenti o l’esperienza per sapere come gestirla. Parlatene, esplicitatelo e ne avrete di più.
Due. Non accettate mai la storiella del “perché ha parlato troppo tardi”. Non siate mai accondiscendenti con chi insinua che se una donna non parla subito è in qualche modo colpevole anche lei. È un modo per far sentire in colpa la vittima e indebolirla nella sua capacità di reagire. Chi subisce abusi o molestie – dalle più blande e subdole a quelle più violente – sviluppa meccanismi di protezione i più variegati e complessi. In certi casi neanche ti rendi conto di cosa sta succedendo. In certi altri preferisci rimuovere invece di affrontare cosa sta accadendo. In altri ancora ti senti in colpa. In altri ti vergogni. O un misto di tutto questo. Ma chi parla, anche dopo anni, può essere di enorme supporto a tutte le altre. Ascoltare e leggere le storie e gli episodi di altre donne è uno dei modi migliori per riconoscere quanto sta accadendo a te e trovare la via per affrontarlo.
Per questo scrivo. Anche il racconto più piccolo o apparentemente insignificante può risvegliare o aiutare le altre. Anche se in qualche modo “in ritardo”. Così è stato per me.
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