Benessere
Periferie in rivolta? No, cittadini invisibili che chiedono rispetto
Sono le responsabili della caduta del Pd a Roma e a Torino e della conseguente vittoria del M5S. O almeno così hanno detto tutti all’indomani delle elezioni comunali del 2016. Tuttavia, in pochi le conoscono davvero, in troppi preferiscono non metterci piede, sbagliando. Parliamo delle periferie – e dei loro abitanti – luoghi che oggi sono più variegati e meno grigi e rabbiosi di quanto immaginiamo. Abbiamo chiesto a Chiara Saraceno, sociologa, ex presidente della commissione governativa sulla povertà, qual è lo stato di salute delle periferie italiane e dei loro abitanti. E abbiamo sfatato tanti preconcetti.
Professoressa, partiamo dalla definizione: cos’è la periferia?
Quando si parla di periferie non si intende solo e neppure principalmente uno spazio geografico collocato lontano da un centro urbano, vuoi perché ne è ai margini, vuoi perché ne è totalmente distaccato (come nel caso di alcune aree interne). Con questo termine ci si riferisce piuttosto a situazioni che non sono solo lontane fisicamente da un centro, ma anche socialmente. Le periferie geografiche, infatti, possono essere anche luoghi pieni di vita e socialità se hanno condizioni di vivibilità decenti e che consentano di non essere vissute né come solo dormitori né come ghetti. Non tutti i quartieri periferici sono spazi di povertà e marginalizzazione. Viceversa povertà ed emarginazione possono caratterizzare anche alcuni quartieri di un centro urbano, come succede, ad esempio, in diverse città meridionali italiane. Non parliamo di periferie quando parliamo di zone suburbane ricche o dei nuovi quartieri residenziali lontani dal centro ricchi di verde e servizi cui vengono attirate coppie giovani con figli. Ne parliamo quando c’è una distanza rispetto al centro non solo geografica, ma relativa alla qualità del vivere, alle condizioni dell’edilizia e dei trasporti, ai servizi, oltre che alla composizione sociale degli abitanti. Quando c’è una distanza sociale rispetto alle condizioni di vita “buona” e rispetto a chi viene considerato adeguato, rispettabile, degno di essere preso in considerazione. Troppo spesso alcune periferie geografiche diventano periferie sociali, luoghi di degrado, o anche solo di marginalità perché i loro abitanti vengono considerati e trattati, da chi ha potere di decisione sulle infrastrutture urbane, ma anche dai politici, dai media, da chi costruisce il discorso e le rappresentazioni pubbliche, come non importanti, non degni di attenzione e rispetto, appunto periferici rispetto ad altre priorità.
Qual è lo stato di salute delle periferie italiane oggi?
Dipende di quali città parliamo: ce ne sono che hanno molto lavorato sulle periferie per evitare che diventassero degradate e altre che questo lavoro non lo hanno fatto. Dipende molto se alcune periferie diventano, anche in seguito a scelte di politica sociale, concentrati di persone ghettizzate, luoghi di scarico delle problematiche sociali. Quartieri di edilizia popolare nati per consentire l’accesso alla proprietà abitativa a famiglie operaie e della piccola borghesia con redditi modesti ma sicuri, a volte sono stati profondamente trasformati in peggio in seguito alla decisione di farne luoghi dove concentrare individui e famiglie multiproblematiche, oggetto di assistenza pubblica. Questa concentrazione, così come quella derivante dalla concentrazione di edilizia pubblica in alcuni spazi, anziché distribuirla più omogeneamente sul territorio, mentre peggiora la qualità della vita dei residenti tradizionali, non facilita neppure quella dei residenti più fragili lì concentrati. Al contrario, innesca un circolo vizioso di marginalità, de-solidarizzazione, rancore.
La divisione della città in ghetti che conseguenze ha?
Intanto fa stare male chi ci abita, riduce le risorse di capitale umano e sociale. Rende difficile vivere e persino migliorare la propria condizione. In parte questo è vero anche per i quartieri centrali lasciati al degrado e dove, proprio per questo, si concentra una popolazione povera. Nel caso delle periferie, la distanza spaziale diventa un fattore di aggravamento aggiuntivo, sia dal punto di vista psicologico, della rappresentazione che si ha o di cui si è oggetto, sia dal punto di vista materiale. Se i trasporti non ci sono o comunque sono poco frequenti, scomodi, non presidiati dal punto di vista della sicurezza, se mancano servizi essenziali e quelli che ci sono non sono adeguatamente curati, la percezione di non essere pienamente cittadini, di essere considerati vuoti a perdere è inevitabile. Se a questo si aggiunge una composizione della popolazione caratterizzata da una forte incidenza di varie forme di svantaggio e vulnerabilità, la tendenza dei politici locali a scaricare, appunto, sulle periferie, allontanandole dal centro, le varie “emergenze” – dagli sfrattati, ai rom, ai richiedenti asilo – l’idea di essere insieme vittime ed esclusi dalle scelte di “chi comanda” trova fertile e legittimo fondamento. E il passo è breve per creare solidarietà non tanto per migliorare le proprie condizioni, quanto attorno al rifiuto del “nemico”, dell’intruso, che sia la polizia o il campo rom più o meno abusivo o i richiedenti asilo.
Perché è difficile il dialogo tra centro e periferia?
Non è tanto un problema di rapporto centro-periferie, perché anche il centro può avere caratteristiche di degrado ed esclusione sociale di tipo diverso. È più un problema di invisibilità per chi ha potere di decidere o per chi fa commenti, le narra senza conoscerle.
Cosa bisognerebbe fare per dare centralità alle periferie?
“Dare centralità alle periferie” suona come un ossimoro. Dal punto di vista geografico le periferie rimangono comunque tali. La questione è se coloro che le abitano sono considerati a pieno titolo cittadini, quindi con il diritto a una qualità di infrastrutture pubbliche decenti ed anche alla possibilità di partecipare ai processi decisionali che li riguardano come abitanti di quei quartieri.
Purtroppo da troppi anni la qualità della vita, le opportunità di costruzione di una capacità di azione collettiva che rendesse partecipi gli abitanti di molte periferie per il loro miglioramento, è stata lasciata a, generosi, gruppi di volontariato, a singole parrocchie o parroci, senza che vi sia stata una riflessione sistematica e tanto meno una attenzione politica non occasionale o non strumentale.
Il risultato è che lo spazio è rimasto aperto per imprenditori della paura, in alcuni casi appartenenti alla criminalità organizzata. In questo spazio sono entrati recentemente alcuni gruppi e partiti politici, trovando terreno fertile nel rancore e mancanza di fiducia nel “centro” generati da decenni di distrazione, quando non vero e proprio disprezzo. Non sorprende che il populismo trovi terreno fertile in questi contesti, anche se non si sviluppa solo lì.
Il lavoro da fare è lungo, non può essere improvvisato, consiste di tante micro-azioni a più livelli, che devono essere sistematiche e continuative, senza illudersi che basti un po’ di illuminazione delle strade e di qualche corsa d’autobus in più, anche se queste sono necessarie. Deve partire dal riconoscimento che si tratta di cittadini cui per troppo tempo si è mancato di attenzione e rispetto.
Le aree terremotate non sono nuove periferie?
Forse alcune lo erano già prima, nel senso in cui Fabrizio Barca parla di “aree interne”: aree geograficamente lontane dai grandi centri e anche dalle linee di trasporto, anche a motivo delle caratteristiche orografiche, con pochi servizi, spesso spopolate (molte delle case di Amatrice erano di fatto seconde case, anche se di origine famigliare), simili ad alcune aree che alcuni sindaci oggi cercano di ripopolare e fare rivivere ospitando e integrando migranti. Certo, il caso dell’Aquila con le sue new town isolate tra loro, dalla città e dalle attività produttive è un esempio di creazione top down di periferie non si sa quanto temporanee. Per i paesi coinvolti dall’infinito terremoto di quest’anno l’esempio da seguire sarebbe piuttosto quello del Friuli, con la sua attenzione per non scollegare i bisogni dell’abitare da quelli del mantenere una economia attiva.
(1. Continua)
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