Lavoro

Vittime del Jobs Act: stagionali in rivolta contro il governo (e i sindacati)

25 Aprile 2016

C’è una storia di lavoro, fra le tante che troppo spesso vengono taciute, e che rispetto alle tante storie individuali di esclusione generate dal Jobs Act è “stranamente” una storia molto collettiva.
I lavoratori stagionali in questo paese sono una massa indefinita e difficile da contabilizzare.
Più di trecentomila nel turismo (forse), molti di più se si parla di tutti i settori produttivi.
Sono baristi, camerieri, receptionist, facchini, cuochi, da sempre lavorano alcuni mesi l’anno, non per scelta, ma per necessità.
Pochi sanno, molti fanno finta di non sapere, che il paese più bello del mondo non è il paese più turistico del mondo: alcune aree, a volte intere regioni, si accendono solo in determinati periodi per languire inesorabilmente in altri, a tal punto che parecchi ristoranti, alberghi, negozi aprono solo “in stagione”.
Nei mesi di magra questo esercito di lavoratori viveva (almeno fino all’anno scorso) col sussidio di disoccupazione, per poi riprendere il lavoro spesso alle dipendenze dello stesso datore l’anno successivo.
Con l’entrata a regime della Naspi questo equilibrio si è spezzato.
La nuova disoccupazione, corollario anche filosofico del Jobs Act, è un sistema di tutela spiccatamente assicurativo e privo di elementi di solidarietà: chi versa poco ottiene poco.

E gli stagionali, non per loro scelta, versano pochi contributi.
Fin qui parrebbe l’ennesimo capitolo di una lunga storia di iniquità che questa folle riforma del mercato del lavoro ha concorso a scrivere, iniquità spesso sommerse dai fiumi di parole di un Governo abilissimo nel negare ogni evidenza scientifica; in realtà la denuncia è solo piccola parte di questa vicenda.
Questi lavoratori tramite una pagina Facebook si sono nei mesi saputi organizzare assumendo una identità collettiva ben definita.
Sia chiaro: siamo di fronte ad una organizzazione liquida, fatta di “mi piace” e di commenti incazzati e bellicosi, e non è dato sapere quanto reale sia, quanto compatto sia questo fronte, ma c’è ed esiste, animato da alcuni lavoratori appassionati che hanno preso questa battaglia come una missione. Non mancano nemmeno ovviamente pesanti contraddizioni e vistosi coni d’ombra.
La politica spesso solo assetata di consensi a breve termine, ha provato e tuttora prova a mettere il cappello su questo “movimento”; del resto il contatto con la politica è irrinunciabile perché le leggi si fanno e si cambiano in parlamento.
Non mancano in sostanza le strumentalizzazioni, le incoerenze evidenti, nella giovane vita di questo gruppo, che ha raggiunto più di ventitremila adesioni, il tutto condito da una indefessa carica antisindacale che dà da pensare.
La critica al sindacato è spesso grossolana ed ingenerosa.

Su questa partita almeno le organizzazioni di categoria si sono mosse, scontando l’ostracismo di un partito (il PD a trazione renziana) che pur di non dare loro  il ruolo di interlocutore, ha preferito scientemente parlare coi diretti interessati e i loro improvvisati rappresentanti, assecondando la moda della “democrazia diretta” così più semplice di quella rappresentativa, ma anche molto parziale e faziosa, talvolta pericolosa. Finora promesse tante, cambiamenti: nessuno.

Gli spunti di riflessione sulla non proprio silenziosa marcia dei lavoratori stagionali, superano però di gran lunga gli elementi di colore che pure non mancano, fra petizioni on line, scioperi annunciati e mai fatti, incursioni presso le sedi INPS e mail bombing inequivocabilmente di matrice pentastellata.
La crisi del sindacato nasce spesso dalla sua incapacità di rappresentare un lavoro diverso da quello tardo fordista delle “fabbriche e delle officine”.
Chi non era a tempo indeterminato non poteva ambire ad una forma di organizzazione rivendicativa, ma solo ad una sorta di tutela consulenziale e assistenziale. E questo ormai da decenni.

Col Jobs Act i lavoratori a tempo indeterminato non esistono più, e con loro, le poche certezze del movimento sindacale chiamato (forse per l’ultima volta) a cambiar pelle o a morire di marginalità. I lavoratori stagionali non sono mai stati a tempo indeterminato ed hanno sempre identificato il sindacato con il patronato che li assisteva nella compilazione delle domande di disoccupazione, o peggio, con chi spesso seduto al fianco del padrone, propinava loro un verbale conciliativo di fine rapporto, con cui sanare con un “nulla a pretendere” eventuali difetti e storture accumulate in mesi e mesi di duro lavoro.
Difficile fidarsi. Difficile affidarsi. E difficile comprendere che il sindacato diventa una altra cosa se i lavoratori lo cambiano da dentro e non si limitano ad attaccarlo da fuori.

Ma anche la politica che, come si è detto, corteggia e illude questi lavoratori in un tripudio di ambiguità, ha colpe ben precise e ben più grandi di quelle delle organizzazioni sindacali.
La vicenda della Naspi rappresenta un esempio (l’ennesimo) di insipienza e faciloneria che stanno caratterizzando l’operato di questo esecutivo, nell’approcciare temi delicatissimi come quelli lavoristici.
Si pensi allo scandalo dei voucher per rimanere alla attualità, che sta creando una generazione di voucherizzati erede diretta della “generazione mille euro” che, per intenderci, in pensione non ci andrà nemmeno a 75 anni, con buona pace di Boeri e dei tanti esperti che si accapigliano su proposte correttive dal sapore beffardo.
Togliere il sussidio di disoccupazione agli stagionali significa non conoscere le caratteristiche storiche della nostra domanda turistica di cui gli stagionali sono le prime vittime. Accusarli di essere parassiti, vuol dire non conoscere il nostro paese, dove il lavoro non c’è ovunque e non si può creare laddove manca, senza investimenti strutturali.

Invitarli a lavorare in nero nei periodi di inattività certifica solo che il berlusconismo, con le sue teorie sui cassaintegrati, permea il retrocranio della nostra società, prima ancora che della nostra classe dirigente. La marcia dei lavoratori stagionali continua con una raccolta firma per una legge di iniziativa popolare che restituisca a queste famiglie, attraverso un nuovo sussidio, un po’ di serenità. Il sindacato di categoria e una sparuta pattuglia di deputati sinceramente attenti a questo potenziale dramma sociale provano a dialogare per trovare una soluzione.
Basterà? Probabilmente no.

Di certo però questa vicenda a molti sconosciuta, insegna che esiste un paese reale che sanguina, fragile e arrabbiato, stanco di subire e che chiede rappresentanza. Chiede di contare, magari sbagliando le entrate, come tutti quelli che, da troppo e da troppi, sono stati accompagnati, più o meno gentilmente, sempre alla uscita. Abbiamo ormai capito a nostre spese che il lavoro per Renzi e Poletti è solo questione di quantità e non più di qualità.
Gli stagionali con la loro piccola storia di tribolazioni quotidiane offrono una bella testimonianza di come il lavoro debba rimanere veicolo di dignità, quella dignità che non si evince dai contributi effettivamente versati, ma dalla fatica di vivere (e voler continuare a farlo) a discapito della invisibilità a cui spesso vengono condannati gli ultimi, quelli a cui è più comodo non pensare, perché tradizionalmente subiscono in silenzio. Ma “tradizionalmente”, come questo caso insegna, non significa per forza “in eterno”.

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