Partiti e politici
Dai dalemiani agli ex fascisti: ecco la lobby che vuole la pelle di Marino
Prima e più a fondo delle multe non pagate rinfacciate al sindaco di Roma Ignazio Marino. Prima di una polemica assurda: perché in qualunque capitale del mondo sapremmo già se ha mentito Marino (e allora se ne deve andare) o i suoi accusatori (e allora se ne devono andare loro). Prima del servizio televisivo de Le Iene che inseguono Ignazio Marino per chiedergli chiarimenti su quelle multe. Prima delle polemiche che logorano una giunta appesa a un filo da quella primavera del 2013 in cui ha vinto le elezioni.
Prima, molto prima, sta il complicato rapporto tra Ignazio Marino e i poteri che governano la capitale. Una città difficile, governata da mani sconosciute fuori dall’Urbe eppure potentissime nel far girare voti e soldi. Una città multiforme, sempre sospesa tra la necessità di pensarsi al futuro e la tentazione di accoccolarsi al caldo di un passato remoto glorioso, e di un passato recente meno sfavillante, certo, ma tutto sommato protettitvo. Tra immobiliaristi, lobbisti, spioni, politici locali più potenti di tanti peones che stanno in parlamento, e venditori di caldarroste e di vino con cui, se conosci Roma, sai che devi parlare.
Se la conosci, appunto. Se sai che cosa è. Il marziano, Ignazio Marino, si è ritrovato nel mezzo di quella massa ribollente: con il suo portato di imperizia e idee, con il sogno americano nel cassetto e quella faccia un po’ così, a guidare l’antica capitale del mondo, Roma, e ora messo sotto accusa per alcune multe non pagate. Tutti aspettiamo chiarimenti definitivi e inoppugnabili. Tutti sappiamo, tuttavia, che la storia riguarda il potere di Roma, inizia molto prima di una panda rossa guidata dal Sindaco: e qui vogliamo provare a raccontarla.
A distanza di giorni, il pericolo delle dimissioni, dopo il caso-multe sollevato dal senatore Ncd Andrea Augello, continua a bussare alle porte del Campidoglio, colle dove risiede il sindaco di Roma. Nella maggioranza che lo sostiene ha prevalso il buon senso. Quello di una classe poltica arruffona, ma non così autolesionista da far cadere se stessa, col rischio di dover aspettare la primavera per le nuove elezioni, e senza garanzia alcuna di rielezione e vittoria. Per questo, più che per ogni altra e alta ragione politica, piena fiducia al sindaco Marino, fra mille se e altrettanti ma. Perché se è vero che il fenomeno Matteo Renzi ha riscritto completamente gli orizzonti del panorama nazionale, è altrettanto vero che le correnti romane continuano a procedere autonomamente come se il tempo si fosse fermato agli anni Novanta. Cambiano i nomi, ma i “pacchetti” dei voti, o delle tessere, rimangono sempre al loro posto. E in questo spazio immutato, una personalità autonoma, fuori dalle righe e dalle logiche del controllo del territorio, come quella del sindaco Marino, difficilmente trova una collocazione.
C’è un aneddoto, raccontano i bene informati, che più di altro rende bene la figura del sindaco di Roma. È passato già qualche mese dalle elezioni e il costruttore/editore Francesco Gaetano Caltagirone, da sempre abituato a ricevere riverenze di ogni tipo in Campidoglio, non è ancora stato ricevuto dal primo cittadino. Poi quel giorno arriva e Marino subito rompe gli indugi. Così: “Lei ormai è vecchio, che ci fa con tutti quei soldi? Non se li vuole mica portare nella tomba? Li dia alla città”. Una frase che sembra una dichiarazione di estraneità a quello che chiamano il “modello Roma”: che poi, in realtà, è il “sistema Roma”. Una ragnatela fittissima di lobby, cooperative, società e nomine, tanto che – scherza qualche ex amministratore dell’era Alemanno – “è come se continuassimo a governare noi”.
Più di ogni altra cosa, Marino paga l’assenza di una sua struttura sul territorio capace di difenderlo dalle continue bordate “amiche”, soprattutto nei momenti di maggiore difficoltà, come lo sciopero dei dipendenti comunali dello scorso giugno o i profondi malesseri della Polizia Locale in seguito alla nomina di Raffaele Clemente, il comandante proveniente dalla Polizia. “I suoi fedelissimi, inoltre, la Cattoi (Alessandra, assessora alla famiglia, ndr) o la Cutini (Rita, assessora alle politiche sociali, ndr) – aggiunge un esponente del Pd – non sono assolutamente in grado di ricoprire la loro posizione, e spesso sono proprio loro a creare i problemi più grandi al sindaco”. Accanto a loro c’è anche il capo gabinetto Luigi Fucito, responsabile di alcune delle gaffe più clamorose del sindaco. Come la nomina di Liporace, nominato comandante della Polizia Locale senza possedere i requisiti imposti dal bando capitolino, o quella di Ivan Strozzi, messo a capo della municipalizzata dei rifiuti Ama e subito sfiduciato, dopo che venne alla luce il suo coinvolgimento in un’indagine giudiziaria per traffico illecito di rifiuti.
Uno dei grandi avversari del sindaco è l’europarlamentare ed ex sfidante alle primarie del 2013, David Sassoli, il quale non perde occasione per attaccare frontalmente Marino criticandone l’operato. Ma a capitanare la guerra quotidiana contro il primo cittadino, seppur nel suo stile sommesso, è senza dubbio Nicola Zingaretti, colui che nel 2012 aveva già iniziato la campagna elettorale per sedere nel posto più alto del Campidoglio, per poi dirottare sulla Regione Lazio. “Spirito di partito” come sempre ha affermato lui o “paura”, come suggerisce più di qualche maligno. Fra Zingaretti e Marino la distanza è siderale. Uomo di apparato dai metodi consociativisti il primo, estemporano con il mito degli Usa il secondo. Non è un mistero che il sondaggio che decretava l’impopolarità di Marino e al tempo stesso saggiava la consistenza di Zingaretti su scala nazionale, sia stato commissionato proprio da uno dei suoi fedelissimi, il consigliere capitolino Francesco D’Ausilio, ex capogruppo Pd, costretto alle dimissioni da Marino, dopo il disvelamento del sondaggio.
Fra i due lo scontro è totale su quasi tutti i punti nodali della politica capitolina. Sui trasporti, dove l’assessore alla mobilità Guido Improta, ex sottosegretario ai trasporti dell’era Monti, non passa giorno senza chiedere alla regione i fondi previsti per il trasporto pubblico. Sull’urbanistca, dove la visione dell’assessore capitolino Giovanni Caudo, uno dei più critici a sinistra ai tempi del piano regolatore veltroniano, mal concilia con quella di Civita, fedelissimo di Zingaretti e capace di riproporre, seppur con poche modifiche, il piano casa varato da Renata Polverini, che poteva vantare fra le fila della sua amministrazione anche Roberto Carlino, l’uomo che non vendeva “sogni, ma solide realtà” vicinissimo a Caltagirone. C’è poi il tema dei rifiuti, dove il sindaco Marino, dopo aver fatto chiudere la discarica di Malagrotta, ha messo in crisi un sistema che da decenni anni ruotava attorno ad un’unica persona, l’imprenditore Manlio Cerroni, il re della “monnezza” da sempre ben visto in tutte le amministrazioni di centrosinistra. Tanto al Comune, quanto alla Regione, quanto alla Provincia, dove lo stesso Zingaretti ha governato fra il 2008 e il 2013.
Se c’è un punto di intesa fra i due, quello è senza dubbio il progetto legato allo stadio della Roma. In questo caso la centralità assunta da Marino nell’operazione non ha assolutamente infastidito Zingaretti, i cui rapporti con il costruttore protagonista della partita, Luca Parnasi, consolidati con la realizzazione della sede della Provincia nel quartiere dell’Eur, in più di una occasione sono stati fonte di imbarazzo. Anche perché è proprio sullo stadio della Roma che si è riversato maggiormente l’astio di Francesco Gaetano Caltagirone contro il sindaco, che ha utilizzato le pagine del suo giornale, il Messaggero, per portare avanti la sua personale battaglia.
In questo, Caltagirone, che con l’amministrazione ha dovuto confrontarsi anche per risolvere la vertenza metro C, ha trovato sponda in alcuni fedelissimi all’interno del partito democratico, i cosiddetti compagni del mattone. Vicini alle esigenze dei grandi costruttori, come a quelle dei consorzi di recupero urbano, una potenza economica capace di smistare fondi pubblici e voti, soprattutto nelle periferie. Fra loro spiccano i Marroniani, gruppo legato storicamente a Massimo D’Alema che prende il nome da Umberto Marroni, attuale senatore ed ex capogruppo del Pd durante gli anni di opposizione light ad Alemanno, e i tanti reduci di Gianni Letta, che non a caso nei rumors che danno Veltroni alla presidenza della repubblica viene accreditato come possibile Segretario al Quirinale.
Anche la battaglia in Acea, la multiutility romana, ha costituito un terreno di scontro decisivo all’interno del partito per il sindaco Marino. Soprattutto dopo che lo scorso giugno il sindaco è riuscito a far approvare la riduzione dei componenti del consiglio di amministrazione, oltre alla riduzione dei loro compensi, ponendo di fatto fine a un accordo preso da una parte del Pd, sempre quella dei marroniani, durante gli anni di Alemanno. Un patto scellerato che aveva permesso a Caltagirone di contare ben oltre il suo 15% , ma che allo stesso tempo aveva garantito un posto all’interno del cda all’ex tesoriere della “dalemiana” Fondazione Italiani Europei, Andrea Peruzy. E sempre contro lo stesso blocco di potere, Marino si è ritrovato a combattere, sostenendo la linea del vicesindaco Luigi Nieri, nel momento in cui ha deciso di togliere la gestione e la manutenzione del patrimonio immobiliare comunale dalle mani di Alfredo Romeo, l’imprenditore napoletano da sempre contiguo alle amministrazioni di centrosinistra, che di proroga in proroga ha controllato tutti i beni comunali negli ultimi 15 anni, con un esborso per l’amministrazione di circa 11 milioni di euro all’anno, senza mai essere obbligato a competere col mercato di riferimento e coi relativi ribassi di prezzo.
Alla luce di tutto questo, individuare il presunto sabotatore che possa aver fatto filtrare – manomessi, come dice il sindaco?; originali, come dice la sua opposizione? – i dati informatici del Campidoglio con l’obiettivo di far dimettere il sindaco sarà difficile. In un modo o nell’altro, sono in tanti, troppi, anche fra le fila amiche a tenere più di un motivo valido per avercela con lui. Sia perchè l’inesperienza amministrativa, la scarsa conoscenza di una città complicata, lo ha esposto a continue brutte figure. Ma anche e soprattutto per aver messo le mani, con la volontà più o meno consapevole di cambiarlo, in quel sistema di potere che governa Roma da decenni. Immaginare un finale come quello del Laziogate di Storace pare difficile. Anche se di quella giunta regionale, proprio il grande accusatore Andrea Augello era assessore e fedele alleato. Un caso, sicuramente, ma questa è già un’altra storia. Come un’altra storia è la presa permanente di Gianni Letta e dei suoi uomini su Roma Capitale, proprio adesso che la partita per il Quirinale riapre le porte per l’ex sindaco Veltroni. Altre storie, già. O no?
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