Un anno fa il trionfo, oggi abbiamo tanta paura del Renzi che è dentro di noi
Un anno, mille anni. Dall’innocenza dell’entusiasmo di molti, al realismo del compromesso gestito necessariamente da pochi. È la storia della politica, così va il mondo, e chi guarda indietro di un anno e conta le verginità perdute per poi scandalizzarsi, con ogni probabilità, sbaglia. Va rispettato, ma sbaglia. Il buco nero di quest’anno non sta nel compromesso morale, nella purezza perduta, ma esiste ed è più profondo: e oggi vogliamo provare a cercarlo.
L’avete capito: la scena da cui partiamo è quella dell’8 dicembre del 2013. Dopo una cavalcata trionfale, che ha attraversato le sconfitte come “vittorie morali” poi risarcite dalle sconfitte senza attenuanti dei vecchi-avversari, Matteo Renzi si prende il banco. Le primarie di un anno fa sono una formalità, una prova di forza politica impressionante costruita in fretta e incrociando tutte le debolezze di una classe dirigente perdente, di un’antropologia politica che teneva insieme il peggior senso di superiorità con il più elevato tasso di inconcludenza. Poco importano, come sempre quando arriva la piena, i tanti distinguo che in molti si sono meritati sul campo. Pierluigi Bersani sarebbe il stato primo cui riconoscere meriti concreti di uomo di governo, separandoli da una gestione colpevole e inerziale di un partito che, per non sparire, aveva bisogno di una rivoluzione. Per i distinguo, nei mesi che separano le elezioni non-vinte dal Pd in Febbraio dalle primarie stravinte da Renzi in Dicembre, non c’è davvero più posto.
Non è una terra per dubbiosi, il renzismo di governo, il renzismo di maggioranza. Ce ne accorgemmo tutti, subito dopo. Quando era opposizione interna, minoranza in via di lievitazione, il sindaco di Firenze teneva insieme i tanti suoi entusiasti estimatori e i tantissimi, molto di più, che gli riconoscevano il sicuro merito di accendere il fuoco nel museo delle cere, in attesa di esercitare con lui e i suoi la stessa acuminata critica che riservavamo negli anni a D’Alema e Bersani, a Finocchiaro, Fioroni, Franceschini, e alla ricca produzione di classe dirigente selezionata per criteri di fedeltà, giù per li rami fino ad Alessandra Moretti. Sembrava ragionevole, no? Eravamo durissimi con chi aveva fallito, prima, ma ci dichiaravamo indisponibili a fare sconti sul merito e sul metodo, dopo.
Ma per tutti questi dubbi, queste complessità, non ci fu più posto nella rapida escalation che portò in pochi mesi da una presa del potere all’altra: dal partito a Palazzo Chigi. Inutile ripercorrere una storia – quella delle finte rassicurazioni a Enrico Letta finite in rapidissima dissoluzione – che tuttti ricordiamo. Inutile rifare qui, ancora una volta, i nomi dei renziani di nuova leva, dei tanti che han dovuto ripulire le proprie timeline su Facebook mano a mano che il ciclone fiorentino li affascinava, li perdonava, li accoglieva e infine, sapientemente, li lusingava con un posto compreso tra la prima e la quarta fila. Inutile, anche perché il guaio vero, purtroppo, sta più a fondo, e sta alla radice di quel che chiamiamo politica, nel perché ci appassioniamo, nel perché, in fondo, abbiamo dato una chance a Renzi e nelle ragioni per cui lui, fin da quella prima ormai remotissima Leopolda ci ha chiesto di dare una chance proprio a lui. Il problema vero, insomma, non sono i mille compromessi che stanno dentro alla pancia della politica, ma i pochi obiettivi concreti che con la politica si vogliono vedere perseguiti, #passodopopasso, come dice lui.
Già, la politica: serve a fare delle cose, a rendere migliore la vita di tutti, a consentire a una società di diventare migliore, a cambiare rotta se si va verso il declino. Paroloni, tutta teoria. In un paese come il nostro – tanti anni di inazione alle spalle e tante ingiustizie istituzionalizzate, tanti strati di cose che non vanno e fanno interferenza proprio dove la politica è sovraba (macchina delo stato, fisco, burocrazia, corruzione) – la traduzione è molto complicata. Servono: idee chiare, pazienza, credibilità, forza nel rappresentare interessi trascurati e solidità nel resistere quando i vecchi interessi si agiteranno perché offesi e lesi. Quindi serve competenza, tanta, tante. E pazienza, e sguardo di lungo periodo capace di sfidare la fretta dei sondaggi e la voglia di sentirsi dire sempre sì: che è più confortevole, ma di solito porta nel dirupo.
Ed era in fondo questo lo scenario che prometteva, parlando di sé e della sua Italia, il Matteo Renzi di lotta. Certo, ad ascoltare con attenzione si capivano molte fragilità del processo, tanta efficacia nel costruire immagini e diversi buchi di sostanza. Ma non sembrava irragionevole la scommessa per cui dentro a quei tanti vuoti si potesse, con pazienza, amalgamare un pieno: di interessi sani dimenticati per decenni e di competenze vere da attrarre e valorizzare come promesso dal format-Leopolda.
E invece. Un anno, con in mezzo dieci mesi di governo, il senso di amaro in bocca non è roba da capricciosi, da gufi rosiconi e via twittando. No. Un anno dopo quello che non c’è è proprio quel che dovrebbe esserci, ed è lo sguardo lungo di un potere politico che pensa al prossimo decennio non come il tempo in cui far durare se stesso, ma in cui rimettere l’Italia nelle condizioni di far correre un sistema, un’industria, dei talenti. Un posto in cui 80 euro arrivati ai dipendenti meno abbienti non possono bastare per ignorare i tanti, tantissimi nuovi bisogni, che spesso si accompagnano con forme di lavoro non tutelato, non rappresentato, e davvero misteriosamente ignorato da un Renzi di Governo che – avevamo capito – proprio a quel mondo avrebbe parlato come mai prima aveva fatto la vecchia sinistra. Quegli 80 euro non possono bastare, e infatti non bastano a far ripartire il paese, l’occupazione e tutto il resto. Più in generale, non può bastare questa trita e ritrita retorica dell’energia, sulla quale Renzi continua ad appoggiarsi: gli eroi saranno anche tutti giovani e belli, come diceva il suo cantautore preferito, ma non abbiamo davvero bisogno di eroi che non fanno quel che serve al paese.
E così, di annuncio in annuncio, di slogan in slogan, di tweet in tweet, il Renzismo di maggioranza compie un anno, e tra pochi mesi anche quello di governo farà 365giorni. Non avremmo pretese strane, che per cambiare l’Italia ci vogliono ben più che dodici mesi, se vedessimo che una direzione c’è, che una strada è stata imboccata e perseguita e difesa con coerenza, ed è quella giusta. Solo che noi, proprio la nostra generazione, in questo governo vede se stessa allo specchio, e l’immagine di noi che viene restituita è impietosa. Una generazione facilona, che chiacchiera molto, annuncia di più e ottiene pochino. Una genìa impaziente, che ammanta di urgenze collettive il bisogno privato di autoaffermazione. Una risma di trenta-quarantenni che ha molte ragioni quando parla dei fallimenti dei padri e dei nonni, ma dovrebbe almeno riconoscere che per seppellire quelle storie bisognerebbe aver saputo, capito, faticato e studiato molto di più. Perché, diciamocelo pure, a sentire parlare i Renzi boys di cose complicate vengono quasi sempre i brividi, tanto sono incompetenti. E a vederli che passano il tempo a definirsi diversi dalla Camusso senza riuscire a rappresentare e difendere ciò che la Camusso non ha mai rappresentato monta anche una certa rabbia. Infine, un gruppo di potere che confonde la sacrosanta necessità di non scandalizzarsi nel fare accordi con chiunque – anche con Berlusconi e perfino con Verdini se serve a migliorare le cose – con l’idea che da quelle parti ci sia chissà quale valore da rivalutare, o semplicemente da incarnare nei fatti.
E insomma, un anno dopo di critiche da fare a Renzi ne abbiamo tante, poggiano sui fatti, sui numeri, sulla distanza tra la promessa propagandistica e azione della vera politica. Ma sono critiche che dobbiamo farci allo specchio, guardando a questa generazione che ha preso il potere – la nostra generazione – e noi. In quello specchio che oggi governa l’Italia vedremo tante cose che non vanno di noi, e forse capiremo che quel che non è rappresentato, i nostri meriti e i nostri bisogni, continuano ad essere ignorati anche per colpa nostra. Diciamolo a Renzi, soprattuto al Renzi che dorme in molti di noi.
5 Commenti
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Dentro di noi c’è sempre stato un Renzi di turno. Gli italiani prima di credere a se stessi vogliono lasciare la propria vita nelle mani del politico più applaudito. Si chiama leader per fare piacere agli esterofili. La delega in bianco è nel DNA della popolazione. Riappropriamoci della nostra vita, senza tralasciare l’identità persa durante quest’ultimo ventennio. Scriviamo un’altra pagina di vera storia senza accettare compromessi o cambiali in bianco. Sarà una bella avventura, dura, faticosa, ma finalmente solo nostra.
Concordo in parte con l’analisi, solo perché è troppo presto per i consuntivi. Chi l’ha votato l’ha fatto non perché renziano (si vedevano da lontano molti difetti) ma per una questione di emergenza, che permane tuttora. Stanchi dell’ultimo dalemiano l’ottimo Cuperlo (ma votarlo era come scegliere Scipio Slataper) si è provato l’azzardo del cambiamento: credo che molti “comunisti” d’antan hanno fatto questo ragionamento. Non sapremo mai come avrebbe governato Bersani (che aveva più pratica di governo quanto meno), perché Napolitano non l’ha voluto. La sua squadra è al disotto di ogni aspettativa, ma la Moretti l’ha tirata dal cilindro Bersani, ahimè. Io aspetterei qualche altro mesetto, sempre che si presenti qualche alternativa valida. “Dibba” è proprio invotabile e la destra è impresentabile anche sotto forma salviniana. Che fare? E’ l’eterna domanda della politica.
Allarghiamo pure lo sguardo.
Inizio a pensare che ci siano generazioni destinate semplicemente a fare le cose un po’ meglio della generazione precedente. E generazioni che devono ridefinire tutto da capo.
La nostra secondo me ha il compito di fare tre rivoluzioni: quella dall’analogico al digitale, quella dall’economia a base di carbonio a una economia carbonfree e quella che ricomincia a distribuire la ricchezza dall’alto al basso.
Sulla rivoluzione digitale più o meno ci siamo, la porteranno a compimento i nativi.
Sulla rivoluzione carbonica ne abbiamo solo una vaga idea e spesso tendiamo a confondere il greenwashing con la necessaria rivoluzione industriale che ci attende.
Ma sul terzo piano, secondo me non abbiamo ancora iniziato a capirci granché, e non basterà far finta di aver letto e compreso Piketty.
In fondo, cari tutti, siamo ancora una volta chiamati a scegliere tra il meno peggio e il resto. io lo faccio da quando voto, e speravo che questa fosse la volta buona, quella diversa. Riparliamone, attendo i vostri spunti e quelli di tutti (Gianluca, che ancora non ha debuttato, sa che quando vuole questa è casa sua)
non credo di appartenere ad una generazione inadeguata, la colpa di TUTTO è dei 68ni. Argomenterò meglio a breve.