La prima misura economica da adottare? Cambiare lo storytelling dell’Italia. Smettere di dire che in Italia va tutto male e sviluppare una narrazione positiva. (Matteo Renzi, 2 giugno 2014, Festival dell’economia di Trento)
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Seduto per la prima volta in aula al banco del governo, “il più giovane Primo Ministro della storia d’Italia” appoggia davanti a sé il suo iPhone, il suo iPad e un MacBook: un armamentario tecnologico degno della seconda stagione di House of Cards, di cui è cultore. È il 25 febbraio 2014, il giorno del voto di fiducia del Senato al nuovo governo di Matteo Renzi: l’inizio di una nuova era per l’Italia.
È la prima volta che Apple fa il suo ingresso al Senato, ma non è il collocamento di questi prodotti, usciti dritti dritti da un Apple Store, ad attirare l’attenzione di fotografi e commentatori. È invece un libro, che Renzi ha messo davanti a sé, in bella vista: L’arte di correre dello scrittore giapponese Hari Murakami. Che ci fa questo libro sul banco di governo del nuovo Presidente del Consiglio? E questo libro ha la stessa funzione dei prodotti con la Mela messi in posa sul tavolo?
Il giorno seguente, L’arte di correre è sulla bocca di tutti; s’impone nelle vetrine delle librerie e gli editoriali dei quotidiani s’interrogano sul messaggio che il nuovo Primo Ministro ha voluto fare arrivare. «Murakami, corridore di fondo, è diventato forse il mentore del nuovo primo ministro, un corridore alla ricerca di un fondo ma di un fondo politico?», ironizzano alcuni giornalisti.
Qualche anno prima, Matteo Renzi aveva promesso che avrebbe corso la maratona di Firenze se fosse stato eletto sindaco: «Se vinco, corro la maratona». Fu proprio quello che fece, indossando una t-shirt gialla con sopra stampata una frase di Jimi Hendrix: «Se sono libero, è perché continuo a correre». Le immagini di Renzi che corre la maratona ritornano allora alla memoria dei giornali, affiancate alle fotografie del libro in vista sul banco del Senato. Per la maggior parte dei commentatori, tuttavia, si tratta di un giovane Presidente del Consiglio chiamato a fare la prova di resistenza da Primo Ministro ed è probabilmente questo il messaggio che vuole lanciare, esibendo l’«autoritratto dell’autore come corridore di fondo».
«Riuscirà Renzi – si domanda un influente blogger –, lui che è stato definito un peso piuma malato di velocità, a correre fino in fondo questa maratona senza fermarsi lungo il cammino con il fiato corto e i muscoli strappati?». «Non è difficile immaginare la ragione dell’interesse di Renzi per L’arte di correre», scrive l’indomani il Corriere della Sera. «Nonostante la proverbiale rapidità di movimento del nuovo Presidente del Consiglio, la sua performance dovrà somigliare più ad una prova di resistenza che ad uno sprint… Quindi, il neofita Renzi può trovare in Murakami, cintura nera di corsa, un maestro di umiltà e moderazione», conclude il quotidiano, restando un po’ troppo impigliato nelle metafore sportive.
Nessuno, in ogni caso, si è spinto a chiedere direttamente a Renzi o a uno dei suoi consiglieri notizie su questo libro. Nessuno ha cercato di saperne di più sul suo interesse per la corsa di fondo. La curiosità dei giornalisti si è fermata al titolo del libro di Murakami. Probabilmente avranno pensato che Renzi non l’avesse neppure letto. O che l’avesse messo lì per strizzare l’occhio alla stampa, rendendola testimone della sua volontà di correre come capo del governo – una vera sfida in Italia. Dal canto loro, i giornalisti si sono accontentati di ricamare sulla presunta resistenza del Primo Ministro. E senza dubbio avevano ragione. Renzi non aveva probabilmente letto il libro. Senza dubbio, uno dei suoi collaboratori gliene aveva parlato. Da tempo avrei voluto ricostruire la traiettoria di questo libro, conoscere le motivazioni di colui o di colei che aveva suggerito a Renzi di inaugurare il suo mandato sotto il segno del corridore di fondo.
Nel corso delle mie ricerche, ho pensato alla Scuola Holden di Torino, una geniale istituzione che non ha equivalenti in Francia, fondata dallo scrittore Alessandro Baricco. La scuola, che deve il suo nome al protagonista del romanzo di J.D. Salinger, Il giovane Holden, insegna l’arte dello storytelling in tutte le sue forme: romanzo, teatro, cinema, fumetto, Tv e web, ma anche corporate storytelling (applicato al marketing e al management). Proprio qui avevo tenuto delle conferenze.
Due giorni più tardi, ricevo una riposta: «Sono Andrea Marcolongo, ho 28 anni, sono nata a Milano e ho studiato Lettere classiche. Dopo la laurea, ho vinto una borsa di studio per merito per studiare alla Scuola Holden, dove ci siamo conosciuti. Ho collaborato con Matteo Renzi dall’ottobre del 2013. E sono io che gli ho parlato de L’arte di correre di Murakami».
Mi ricordavo di Andrea perché, a differenza degli altri studenti con l’ambizione di diventare romanzieri o registi, lei voleva diventare una storyteller politica e nient’altro! I miei consigli, purtroppo, non sono serviti a raffreddare la sua passione per la narrazione politica e la sua ambizione di diventare, un giorno, la ghost-writer di una personalità politica capace di cambiare l’Italia attraverso una sua nuova narrazione. Andrea aveva già chiaro che, dopo Berlusconi, per cambiare l’Italia bisognava raccontare una storia tutta diversa al popolo italiano.
Già Nichi Vendola, il presidente ecologista della Regione Puglia, aveva iniziato ad adottare la linea dello storytelling, che cominciava a conoscere in Italia lo stesso successo che riscuoteva in Francia dopo l’elezione di Nicolas Sarkozy. Vendola ha spesso invocato la necessità di una nuova narrazione o narrativa per il Sud e per tutto il Paese.
In quello stesso periodo, Matteo Renzi era appena stato eletto sindaco di Firenze e la sua popolarità cresceva in tutta Italia. Renzi stesso era diventato un adepto dello storytelling: nei suoi incontri pubblici, parlava spesso di cambiare la narrazione dell’Italia e faceva appello agli elettori con una narrativa che scuoteva gli animi. Lui, che si era auto-designato rottamatore, si appellava alla giovinezza, alla velocità e al futuro per animare le folle in una rivalsa sulla vecchia classe dirigente corrotta, i vecchi partiti pietrificati nelle loro certezze che egli progettava di destinare alla rottamazione.
Andrea gli aveva scritto a più riprese per proporsi come storyteller, senza ottenere risposta. Non si è scoraggiata e, infine, ha proposto nel 2013 un suo discorso per la Leopolda di Firenze, il grande appuntamento annuale organizzato da Renzi dal 2010 e che è diventato la scena e l’emblema del renzismo: in una vecchia stazione ferroviaria di Firenze (la stazione Leopolda), metafora di un nuovo treno per l’Italia, Renzi ha organizzato ogni anno una sorta di festival a metà strada tra la convention politica, l’happening culturale e la conferenze TED. Prossima fermata: Italia. Alla Leopolda, gli studenti, gli intellettuali, gli industriali, la società civile, tutti possono apportare le loro idee per cambiare l’Italia, per «dare un nome al futuro» -purché non si superino i quattro minuti previsti per l’intervento.
Nata dall’idea di unire meeting politico e spettacolo partecipativo, con un grande supporto multimediale, la Leopolda non era però l’iniziativa di un partito politico, era la scena del rinnovamento dell’Italia: un Big Bang per costruire la Terza Repubblica (la Seconda Repubblica sono stati, per l’Italia, gli anni di Berlusconi), ma anche un laboratorio che restituisse alle nuove generazioni la passione per la politica.
«La Leopolda è forse il più efficace strumento di storytelling adottato da Renzi – scrive Andrea Marcolongo. L’idea di libertà di parola, la gioventù, la musica, gli slogan, il futuro sempre invocato… Non c’era alcun altro posto dove poter parlare liberamente in Italia, senza le catene della vecchia sinistra. Ecco perché presi la decisione di parlare anch’io. Sono stata selezionata tra centinaia di persone e nell’autunno del 2013 ho parlato di fronte a Matteo Renzi per la prima volta».
Il discorso di Andrea era intitolato “Orgoglio” ed esprimeva il senso di urgenza di una generazione cresciuta a “pane e sciatteria”, una sciatteria innanzitutto politica. «Era un sabato. Il lunedì successivo ho iniziato a collaborare con Renzi. Due campagne elettorali, l’addio a Firenze e l’inizio dell’esperienza di governo a Roma, le elezioni europee, i viaggi… E’ stata la più bella, la più folle, la più faticosa, la più ambiziosa avventura della mia vita».
Andrea Marcolongo è entrata a far parte dello staff di Renzi. La sua funzione: la storyteller. Un ruolo fino ad allora sconosciuto per la politica italiana, una missione 24/7 per il Comune di Firenze, per la campagna delle primarie in tutta Italia, poi Roma, quando Matteo Renzi è diventato Presidente del Consiglio, le elezioni europee. Per lui scriverà discorsi, idee, spunti, citazioni (anche dalla famosa serie House of Cards), parole chiave (Renzi è un gran consumatore di hashtag: #lavoltabuona, #lasvoltabuona, #cambiaverso, #semplificaitalia, #italiabella, #sbloccaitalia), suggestioni, ma soprattutto delle narrazioni efficaci. Quando Renzi si deve presentare in Senato, per chiederne la fiducia e contestualmente annunciare, non senza brutalità, il “licenziamento” futuro dei senatori, è lei che gli suggerisce L’arte di correre di Murakami. Presentarsi come un rottamatore in una simile circostanza potrebbe sembrare una provocazione. Quindi, fine del rottamatore. Ecco a voi il corridore di fondo.
Si sarebbe potuta immaginare, con una semplice simmetria, l’idea che i tempi del costruttore sarebbero venuti dopo quelli del rottamatore, ma è il maratoneta ad emergere, con la metafora della corsa di fondo e le sue immagini: velocità, resistenza, tenacia, flessibilità. Nulla di meglio che rendere portatore del messaggio un autore che trionfa in tutto il mondo con la sua trilogia 1Q84, venduta in milioni di copie e tradotta in cinquanta lingue. Andrea suggerisce quindi a Renzi di utilizzare il libro di Murakami come emblema del suo ideale di velocità. Il titolo L’arte di correre è più emblematico di un intero discorso. A Renzi l’idea piace e riceve una serie di citazioni.
L’arte di correre è un’autobiografia del romanziere come corridore di fondo, scritto tra il 2005 e il 2006. È il diario di uno scrittore che è anche maratoneta e allo stesso tempo un manuale per chi vuole scrivere un romanzo: è piuttosto l’elogio della resistenza e dell’autodisciplina che della velocità. Ma poco importa: il jogging, che fu tanto caro a Clinton, è uno sport. La corsa di fondo, per Murakami, è un’arte, un’arte solitaria come il romanzo, che impone che la si affronti con una linea definita, un progetto costante, compresa la volontà di superarsi e di vincere. La corsa è un superamento, un’ascesa, vista come una performance senza vittoria, non nell’ideale della competizione, ma nell’esigenza di mettere alla prova se stessi. Il corridore di fondo è disegnatore di sé, scolpisce il suo corpo e allena il suo spirito a fare il vuoto nei suoi pensieri. Nulla importa che la corsa avvenga tra nuvole in movimento e la terra che sfugge sotto ai suoi piedi o che sia sopra un tapis roulant: è un’attività che basta a se stessa, autoreferenziale, senza passato né futuro, potenzialità pura che egli si sforza di estenuare.
Murakami parla della corsa come della ricerca del vuoto: «Semplicemente, io corro. Corro nel vuoto. O potrei dire altrimenti: corro per ottenere il vuoto». Kafka aveva il suo campione di digiuno. Murakami ha il suo artista della corsa. Tuttavia, nel gioco dello storyelling spesso finisce per essere catturato chi credeva di catturare. La metafora è doppiamente efficace. Lo storytelling, nella sua fretta, realizza spesso un autoritratto, in un sorprendente gioco di specchi. A questo punto, nelle narrazioni efficaci, ci si chiede chi sia l’ingannato e chi sia l’ingannatore: l’elettore ingenuo e manipolato o, invece, l’eletto che, credendo di vestirsi di una metafora, espone invece la sua nudità come il re del racconto di Andersen? Così accade anche nel caso della metafora del corridore di fondo. Le citazioni di Murakami, slegate dal loro contesto, mutano senso. Ciò che era esperienza personale diventa regola. Il saggio diventa una sorta di breviario per un mondo neo-liberale, un manuale di sopravvivenza per governanti senza bussola e senza sovranità.
Secondo David Allegranti, corrispondente del Corriere della Sera a Firenze e che ha seguito tutta la carriera di Renzi fin dalla sua elezione a sindaco, la logica politica di Renzi è agli antipodi del principio di rappresentazione, di delegazione e di discussione attraverso figure intermedie ma, al contrario, si appella alla logica della disintermediazione: un progetto di de-costruzione che privilegia la relazione diretta del leader con l’opinione pubblica, unita ad una democrazia partecipativa. Una leadership rafforzata e resa mediatica grazie all’uso dei social network, la famosa democrazia dal basso. Niente che non fosse già stato inventato da più di trent’anni. Renzi crede ad una democrazia di monitoraggio, tramite il web e la televisione. Cerca di creare, attorno alla sua persona, un coinvolgimento cognitivo, che si potrebbe definire come una sincronizzazione di attenzione e di emozione.
«Secondo Renzi – afferma Pippo Civati, che fu l’ispiratore della prima Leopolda e che è diventato il suo più risoluto oppositore all’interno del Partito Democratico –, il partito è al servizio del suo leader, un leader che sfida i suoi oppositori e che costruisce lo scontro secondo uno schema amico/nemico». Così mi spiega Civati in uno scambio di mail: «Renzi è giovane perché gli altri sono vecchi, è veloce perché gli altri sono lenti, è moderno perché i sindacati sono antiquati, è buono perché tutti gli altri sono cattivi… il suo profilo culturale s’inscrive in continuità con Berlusconi, anch’esso ossessionato dalla narrazione, dal modo in cui l’Italia doveva essere raccontata. Renzi è un politico molto abile, legato esclusivamente al presente, noncurante, senza sensi di colpa (ricordate il modo in cui ha preso il posto di Enrico Letta, un Primo Ministro del suo stesso partito). Per Renzi, l’energia prende il posto della riflessione. Semplifica tutto. Non crede al dibattito parlamentare né al confronto in generale».
Nel 2012, Renzi ha pubblicato un libro intitolato Stilnovo, un manifesto “appassionato” che mirava a “rivoluzionare la politica” facendo appello alle emozioni. Un breviario sul cambiamento che non lascia certo troppo stupiti, opera di uno scout, cattolico praticante che si presenta all’uscita della Messa con moglie e figli qualche ora dopo aver dimissionato Enrico Letta. Legato alla città di Firenze, città d’are leggendaria, Matteo Renzi elabora un nuovo modo di fare politica, che sfugge alle categorie tradizionali di destra e di sinistra: il suo stilnovo è la bellezza! «Credo che la politica debba adottare un nuovo stile. Uno stile che riporti la passione al centro della politica, che sappia suscitare emozioni, che riparta dalle bellezza», scrive Renzi nel suo manifesto Stilnovo.
Bisogna però precisare che il sindaco di Firenze ha un’idea tutta personale della bellezza, che esclude, per esempio, la Gioconda: “diciamoci la verità”, scrive, “la Gioconda è più enigmatica che bella!”. È questa l’epoca in cui il Comune di Firenze ha fatto del patrimonio artistico della città, della sua architettura, delle sue piazze, delle sue chiese, delle sue opere d’arte, il cuore del suo brand, il passaporto del suo ingresso sulla scena internazionale. «Utilizzando il patrimonio storico e artistico come arma di distrazione di massa – scrive Tommaso Montanari nel suo libro Le pietre e il Popolo – il sindaco di Firenze è diventato rapidamente il politico professionista che è riuscito a violare il significato civile dell’arte del passato, trasformato brutalmente in una fabbrica di clienti».
Questa violazione non è per nulla metaforica, dal momento che Renzi ordinerà di perforare le pareti di Palazzo Vecchio per ritrovare un fantomatico “affresco perduto” di Leonardo Da Vinci, nascosto sotto un’opera d’arte posteriore, ma reale: un vero attentato contro il patrimonio perpetrato «all’unico scopo di alimentare il suo mito personale e di diventare il simbolo di un supermarketing politico», fortunatamente impedito dalle autorità incaricate della tutela del patrimonio.
Il vangelo della bellezza secondo Matteo è scritto nella nuova lingua del marketing. Le sue parole chiave sono l’emozione, lo stupore, la trasgressione. «Certo che la questione economica è fondamentale. E il problema dell’accesso al credito sarà ancor più fondamentale nei mesi che verranno per le famiglie e le imprese. Ma noi abbiamo bisogno di un’altra cosa. Pensiamo a cosa ci somiglia, a cosa ci fa sognare, a cosa ci lega gli uni agli altri. Che cosa ci rende la patria della bellezza e non il regno della volgarità?». La riposta è il sogno, l’emozione, un modo di provare sentimenti comuni.
Il titolo del libro di Renzi è Stilnovo. Il sottotitolo è ancora più eloquente: La rivoluzione della bellezza da Dante a Twitter. Renzi fa sventolare l’estetica della politica nell’epoca del marketing e dei social network. Il sociologo americano Richard Sennett si interrogava nel suo La cultura del nuovo capitalismo: «Quali valori e quali pratiche possono unire le persone quando le istituzioni all’interno delle quali esse vivono si frantumano? Come gestire le relazioni a corto raggio muovendosi senza sosta da un punto all’altro? Come acquisire le nuove competenze? La maggior parte della popolazione non è così: è orgogliosa di fare qualcosa di preciso e apprezza le esperienze che ha vissuto». E soprattutto: «Le persone hanno bisogno di una narrazione di vita duratura».
Se il bisogno di una narrazione di vita duratura non può più essere soddisfatto, ecco che si rivolgono a narrazioni nuove, capaci di rendere eroico un io finalmente liberato dal suo passato e dai suoi impedimenti, staccato dai tempi lunghi, aperto a tutte le metamorfosi. Un obbligo capace di essere accettato come una necessità economica a condizione di apparire un fatto culturale, una nuova moda o un romanzo.
In visita nella Silicon Valley, Matteo Renzi ha fatto una confessione inquietante ai suoi ospiti americani: «Devo assolutamente cambiare lo storytelling dell’Italia. Qual è il problema in Italia? Lo storytelling dei media – e non solo dei media – è molto chiaro: tutto va male. Raccontare una storia, in Italia, significa raccontare un incubo. Negli Usa, lo storytelling si fonda su un sogno condiviso. Mi sono impegnato per il cambiamento, ma la prima necessità è ridare speranza alla gente».
In dieci mesi, il Rottamatore non ha demolito grandi cose del sistema di potere e di corruzione che ha tanto fustigato durante la sua marcia verso il potere. Al contrario, è divenuto il difensore dei valori dominanti che, dal Nord al Sud dell’Europa, si appellano alla stessa politica di austerità, alla stesse riforme strutturali che consistono nello smantellamento finale dei pochi resti dello Stato assistenziale. Pretendeva di demolire la vecchia sinistra, Renzi è invece diventato l’interprete della vecchia destra neo-liberale, quella di Reagan e della Tatcher. La sua narrazione di un ritorno a casa deve suonare assai strana alle orecchie dei giovani italiani che, a causa della disoccupazione, sono costretti a vivere a casa dei genitori.
Dopo lo storytelling della conquista, lo storytelling del governo. È finito il tempo del rottamatore che ha entusiasmato le folle, lasciando alla vendetta popolare la vecchia classe politica destinata alla rottamazione. È necessario ormai governare sul lungo periodo.
Governare ossia correre, ciascuno nella sua posizione, la maratona europea.
La fine di Matteo, il Rottamatore. Ecco a voi Renzi, il Corridore di fondo.
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(Fine prima parte. La seconda puntata sarà pubblicata nei prossimi giorni. L’articolo è pubblicato contemporaneamente nella versione originale in francese da Mediapart. La pubblicazione avviene in italiano su Gli Stati Generali per gentile concessione dell’autore Christian Salmon)
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