Partiti e politici
Spagna nel pantano, Podemos al bivio: o “stravincere” o morire
Sono trascorsi quasi quattro mesi dalle ultime elezioni generali, un tempo che il Primo Ministro in carica, Mariano Rajoy, ha trascorso a nascondersi, e i partiti di opposizione, invece, a cercarsi. Esistono molti modi di agire, ha sostenuto Rajoy per giustificare il suo atteggiamento, e nessuno mi ha ancora dimostrato che restare fermi non sia uno di questi.
Suonava stonata, questa nota filosofica da vecchio giapponese che guardava passare la corrente mentre gli altri si spendevano in dichiarazioni volonterose, tra la sociologia e l’ermeneutica: L’era delle maggioranze assolute è finita, inizia quella del dialogo. Dopo centoventiquattro giorni il presidente immobile e i cinetici partiti che volevano spodestarlo si ritrovano al medesimo punto di partenza: tesi e controtesi hanno prodotto identica sintesi.
Lunedì 18 aprile Podemos ha annunciato i risultati del referendum interno con il quale ha consultato la propria base per decidere se appoggiare o meno l’intesa nata tra PSOE e Ciudadanos (il cosiddetto Accordo dell’abbraccio). In caso di vittoria del Sì, sarebbe nato il quinto governo a guida socialista della democrazia spagnola, ma erano state paventate le dimissioni dell’intera segreteria della formazione podemista: non proprio un incoraggiamento ai sostenitori della linea morbida. Se a questo si aggiunge che il corpo elettorale di Podemos (circa 400.000 iscritti il cui computo è stato chiuso il 2 aprile per evitare agglomerazioni dell’ultima ora) aveva sempre dimostrato una stretta aderenza alle convinzioni del suo leader, Pablo Iglesias, la situazione sembrava pronta per l’epilogo che si attendeva:
Podemos voterà come il Movimento 5 Stelle (non) votò sul possibile esecutivo Bersani nel 2013: che facciano pure come gli pare, noi andiamo per la nostra strada. L’88,2% dei votanti, circa 170.000 volonterosi, gli ha appena fornito il pretesto perfetto, il resto non si è neppure presa il disturbo di rispondere. Volevano addomesticarci, ma non ci sono riusciti, ha affermato Iglesias: è chiaro che aveva bisogno dell’appoggio della base per sostenere il suo disegno di riscossa (o di disfatta) definitiva: la ripetizione delle elezioni generali.
Le urne hanno consegnato al Capo dello Stato (il Re) un panorama parlamentare nel quale nessun partito poteva formare un governo con le sue sole forze. Soltanto PSOE e PP potevano permettersi un eventuale patto a due, prospettiva che in realtà non hanno mai coltivato, il resto era obbligato a preferire un ménage à trois, se non à quatre. Filippo VI di Borbone, in uno dei suoi impeccabili esercizi di stile da monarca costituzionale, ha annunciato in extremis un nuovo giro di consultazioni tra il 25 e il 26 aprile.
Continua a spendersi per la panacea del “dialogo”, ma se i due colossi continueranno a ignorarsi, tra una settimana sarà costretto, secondo la legge, a convocare di nuovo l’elettorato. La data è anch’essa fissata nell’articolo 99 della Costituzione: il 26 di giugno. Viste l’attuale capacità d’intendimento e la prossimità della pausa estiva, la Spagna potrebbe aspettare fino al prossimo autunno per avere un governo nella pienezza delle sue funzioni.
Il dialogo è sopravvalutato, si può parlare per ore senza capirsi, sosteneva il semiologo Paolo Fabbri durante l’ultimo convegno tenuto alla Universidad Complutense di Madrid, la stessa in cui insegnava Pablo Iglesias: in effetti sembra proprio quel che sta avvenendo. Mariano Rajoy è alle prese con uno scandalo di corruzione più grave dell’altro, e non può permettersi di parlare con nessuno, pena l’improperio, ma Pedro Sánchez, Albert Rivera e Pablo Iglesias ci hanno provato fino allo sfinimento, senza risultati apprezzabili.
Ognuno ha sostenuto una visione caparbiamente alternativa a quella dell’altro, quasi a voler dimostrare che davanti a un’evidente omogeneizzazione dei messaggi politici, è necessario differenziarli. Questa sorta di entropia comunicativa sta proseguendo anche dopo il referendum, con il prevedibile scambio di accuse sulle responsabilità della rottura del tavolo di negoziazione; e più dei 160 milioni di euro che costeranno le nuove urne, lo Stato pagherà un’inquantificabile dose di fiducia sperperata.
Il paese non sembra risentire troppo della tendenza dilatoria della sua classe dirigente, se è vero che nessuno dei possibili accordi di governo raccoglierebbe il favore maggioritario dei cittadini (intesi come censo, non come simpatizzanti). È come se un governo, in Spagna, non fosse necessario, ha affermato lo scrittore messicano Juan Villoro, in questi giorni a Madrid per ritirare il premio Diario al giornalismo culturale; ma il Messico, si sa, ragiona su standard diversi da quelli europei.
I rappresentanti sindacati del pubblico impiego, meno accomodanti, hanno fatto sapere che se la situazione non si sblocca sarà difficile gestire un carico di lavoro che attende che i nuovi concorsi siano ufficializzati; l’indice di fiducia dei consumatori è sceso di otto punti in un mese e il Partido Popular ha annunciato che non si sottometterà al controllo del Parlamento (in qualità di ultimo governo che è riuscito a costituirsi, è condannato a restare in carica fino a quando non ne verrà uno nuovo). Insomma, tutto procede come se le elezioni dello scorso dicembre non si fossero mai celebrate.
Purtroppo questo vale anche per la sinistra spagnola. A meno di colpi di scena dell’ultima ora, il possibile governo timidamente progressista di Pedro Sánchez verrà affossato da un partito-movimento (Podemos), la cui nascita ha suscitato molte speranze, ma che sembra confidare esclusivamente sulle proprie forze per arrivare nelle stanze dei bottoni. Il PSOE li aveva aiutati a Madrid e a Barcellona, e si aspettava una logica di scambio di favori, ma ha ricevuto un sonoro niet, alla bulgara. Adesso il gioco si fa duro: l’obbiettivo sarà soppiantarsi a vicenda, circostanza che si realizzerebbe solo se Podemos ottenesse più del 20,66% dei voti di dicembre. Appare improbabile viste le attuali divisioni interne, che hanno portato alla purga del Segretario Organizzativo e alla marginalizzazione dei fedeli a Iñigo Errejón, il vice di Iglesias, che con il PSOE non volevano proprio intendersi, ma almeno provarci.
Da adesso in poi Podemos ha una sola prospettiva, stravincere e affrontare secondo la sua prospettiva le spinte autonomiste e il controllo della spesa pubblica (gli scogli su cui si è arenato l’ennesimo tentativo di ricompattamento a sinistra): se non ci riuscirà, rischia di ridursi a una forza di opposizione coriacea, ma testimoniale. La Vicepresidenza del Governo e il controllo del Ministero della Difesa, che aveva preteso ancor prima di cominciare a “dialogare”, sembravano fiche da spostare su un tabellone di negoziazioni complesso, si sono trasformate in altrettante scommesse inassumibili per Pedro Sánchez, impegnato a dare alla Spagna un governo progressista sì, ma non tanto da spaventare gli osservatori di bronzo della UE.
Talvolta il confine tra un miracoloso equilibrio e una prevedibile disfatta è così sottile da esigere una disposizione diplomatica che né PSOE, né Podemos, né Ciudadanos hanno dimostrato di poter mettere in campo, almeno in questo momento. Si sono succeduti veti incrociati e bombe a orologeria che non hanno spaventato proprio nessuno; meno che meno l’imperturbabile Primo Ministro in carica, Mariano Rajoy, l’anziano samurai che in questi giorni si gode la vista sul fiume, divertendosi a identificare i disillusi dal dialogo, che uno a uno sfilano verso il mare magnum delle nuove elezioni d’inizio estate.
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