Partiti e politici

Scandali, elezioni e referendum: la scommessa di Renzi alla prova del fuoco

7 Aprile 2016

Quella che per Matteo Renzi sembrava essere una passeggiata di salute, ovvero il referendum sulle trivellazioni del prossimo 17 aprile, avviato a un prevedibile flop, ora rischia di diventare una mina pronta a esplodere tra i piedi del premier. Ma soprattutto l’indagine della procura di Potenza sul petrolio in Basilicata è un ulteriore indizio sul fatto che il presidente del consiglio non abbia più il vento in poppa. Anzi, come Silvio Berlusconi, il suo governo sembra essere addirittura finito nel mirino della magistratura. Lo scandalo dell’emendamento Guidi agli occhi dell’opinione pubblica può avere lo stesso sapore del decreto salva-banche: ovvero di norme su cui può gravare il sospetto di interessi privati o clientelari. Nonostante Renzi e la Boschi abbiano rivendicato la scelta politica su Tempa Rossa come una norma strategica per l’Italia e per il Mezzogiorno, “perché la politica industriale di un Paese la decide l’esecutivo e non giudici, sindaci o governatori”, alla mente ritorna un’antica suggestione, quella che vede Palazzo Chigi come una merchant bank che, come si disse del governo D’Alema, non parla nemmeno inglese. O, in questo caso, francese.

Questo è uno dei punti cruciali. Il governo ha messo in campo azioni riformatrici che finora non stanno dando i risultati sperati. Sui dati economici, sulla crescita (c’è ma molto leggera, più 0,8% nel 2015), sul raffronto debito/Pil (stabile 2,6%). E sulla disoccupazione giovanile (al 39,3%, il dato più alto da ottobre 2015). Anche la produzione sembra al palo (più 0,6% nel primo trimestre 2016), mentre l’export indietreggia (a gennaio meno 2,2% rispetto a dicembre). Il job act sta producendo esiti assai altalenanti, mentre le altre misure dell’esecutivo, a partire dagli 80 euro – che ora si vorrebbero estendere anche ai pensionati – non favoriscono di certo le giovani generazioni. “Non è un governo per giovani”, verrebbe da dire, parafrasando i fratelli Coen.

L’esecutivo Renzi ha da poco superato il giro di boa dei due anni. E se da una parte il premier può dirsi soddisfatto rispetto alla sua foga riformatrice, dall’altra i dati economici non lo premiano. L’Italia è in stallo e l’immobilismo non è certo la benzina migliore per il governo. Per questo motivo un feedback importante per il presidente del consiglio saranno le elezioni amministrative, che si trasformeranno in una cartina di tornasole per giudicare l’appeal di cui ancora gode Renzi tra gli italiani. A Palazzo Chigi sulle trivelle è scattato l’allarme rosso proprio perché il raggiungimento del quorum e una vittoria del Sì rischiano di generare un effetto trascinamento in negativo sul voto di giugno. L’asticella fissata dal premier viaggia sulla direttrice Torino-Milano-Roma. Se il centrosinistra terrà queste tre città, il premier potrà cantare vittoria, se invece anche una sola dovesse passare al centrodestra o al Movimento Cinque Stelle, il risultato sarebbe negativo anche perché verrebbe subito amplificato dai nemici del premier, i più agguerriti dei quali stanno dentro il Pd.

La minoranza dem, lo si è visto anche questa settimana in direzione, ormai si muove come un partito nel partito. Con metodi e obbiettivi diversi e spesso opposti rispetto al segretario. E questo genera una discrasia che prima poi rischia di esplodere, generando effetti catastrofici in quello che oggi è ancora la più grande forza politica del Paese. Renzi, da parte sua, non fa nulla per mediare. “Coltivi l’arroganza dei capi, ma non sei un vero leader”, gli ha detto Gianni Cuperlo durante la direzione. “Un leader cerca di tenere unita la sua comunità, quella che poi dovrebbe votarlo. Renzi invece è un politico che divide ed è questo il suo limite”, gli ha fatto eco Massimo D’Alema in tv. Non è un mistero, del resto, che il premier e il suo stato maggiore, dalla Boschi a Lotti, parli di più con i suoi alleati di governo, compreso Denis Verdini, che con gli esponenti della minoranza interna. E’ evidente a questo punto, anche se non verrà mai detto apertamente, che quest’ultima speri in un risultato negativo non solo alle Comunali di giugno, ma anche al referendum costituzionale del prossimo autunno. Che Renzi ha legato a doppio filo alla sua permanenza a Palazzo Chigi. La sconfitta del governo sulle riforme significherebbe per la minoranza riaprire i giochi su tutto e presentarsi al congresso del 2017 con solide possibilità di riprendersi la “ditta”, con un candidato alternativo il cui identikit si sta via via delineando sulle fattezze di Enrico Letta, Roberto Speranza o Michele Emiliano. Al contrario, se Renzi non dovesse incassare l’en plein alle amministrative, un buon risultato sulle riforme gli consentirebbe comunque di navigare verso il congresso del partito e poi lì giocarsi il tutto per tutto.

Il referendum costituzionale, dunque, sarà il vero spartiacque dell’esecutivo del rottamatore fiorentino. Perché una bocciatura, al momento difficile, equivarrebbe a una definitiva bocciatura della sua azione politica. Se poi il premier, in seguito a un risultato negativo, lascerà davvero Palazzo Chigi, è tutto da vedere. Queste tre sfide imminenti – trivelle, amministrative, referendum – e i rispettivi pericoli che si celano in ognuna rischiano però di andare proprio a vantaggio del premier, che fino a qui ha dimostrato di cavarsela meglio davanti a un nemico o a una battaglia da combattere. “Renzi dà il meglio nella lotta, per questo ha sempre bisogno di un avversario. E quando non ce l’ha, se lo crea”, è la tesi, condivisibile, di Ferruccio De Bortoli. Lo abbiamo visto quando il premier, in mancanza di meglio, ha iniziato a polemizzare con Bruxelles e con Angela Merkel. In queste ore, invece, lo sparring partner è diventata la magistratura, insieme alla sempre viva minoranza del Pd. Questa politica dell’elastico, allunga e accorcia, oltretutto giocata sul compulsivo rendiconto dei sondaggi a breve termine, alla lunga rischia però di essere sfibrante e di diventare motivo di logoramento per l’esecutivo. Tanto più, e torniamo al punto iniziale, che i dati economici non migliorano. Ma quello che sembra più mancare in questo momento al governo – ed è questo l’altro punto cruciale – è soprattutto una mission, un progetto politico di medio-lungo termine che vada al di là del giorno per giorno. La rottamazione e la foga riformista, insomma, non basta più.

Inoltre, c’è il problema della classe dirigente. “Possibile che le migliori intelligenze del Paese si concentrino tra quell’ottantina di km che dividono Firenze da Arezzo?”, si chiedeva ironicamente l’ex tesoriere del Pds Ugo Sposetti questa settimana intervenendo alla presentazione della riedizione del Manuale Cencelli a Montecitorio. Ecco, l’occupazione pretoriana dei posti della politica e delle aziende parastatali da parte dei frequentatori della Leopolda è un’arma a doppio taglio che rischia di trasportare l’esecutivo in una fase crepuscolare se poi i risultati sono al di sotto delle aspettative. Ed è proprio qui che Renzi rischia di perdere la sua sfida per il Paese. La sua scalata è stata scandita dalla battaglia sul ricambio generazionale e sull’addio alla vecchia politica degli interessi  e degli scambi incrociati per dare spazio al merito. Ma le vicende degli ultimi mesi registrano da una parte una rottamazione dei vecchi dirigenti a vantaggio quasi esclusivamente del giglio magico e, dall’altra, il sospetto di procedere secondo logiche clientelari. Esattamente l’opposto rispetto al primo Renzi. Perché, per esempio, pensare all’amico fidato Marco Carrai come capo della Cyber security nazionale? Non si poteva trovare qualcun altro? E’ sulla politica familistica e autoreferenziale che il premier rischia di perdere la sua sfida per cambiare il Paese.

Il 17 aprile, dunque, avremo un primo round per capire se c’è ancora vento nelle vele del presidente del consiglio. Ricordando un pericoloso precedente. Fu l’invito di “andare al mare” al referendum del 1991 sulla preferenza unica, dove invece votò il 62,6 per cento degli italiani, che segnò l’inizio della fine di Bettino Craxi. Per questo Renzi farebbe bene a non esporsi troppo sulla consultazione petrolifera. Cosa che in molti, nel suo staff, gli stanno suggerendo di fare.

 

(Foto di copertina tratta da Flickr, Palazzo Chigi)

 

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