Partiti e politici
Quale sconfitta, quale sinistra?
Questo articolo nasce da un’esigenza degli autori: lanciare qualche sasso nella discussione che si sta sviluppando “a sinistra” sulle cause della sconfitta del 4 marzo – probabilmente la più complicata dal 18 aprile 1948 – e sulle possibili vie d’uscita. Una premessa imprescindibile: non si può ragionare sulla crisi della sinistra italiana senza considerare la simultanea crisi che sta vivendo la sinistra nel Vecchio Continente. Se non si fa questa valutazione, le soluzioni ipotizzate o trovate non possono che produrre strumenti inadatti ad affrontare il problema. È infatti per questo motivo che abbiamo deciso di intervenire a “gamba tesa” dicendo che le discussioni, le analisi e le soluzioni apparse fino ad ora che trattano di forme-partito, di parole d’ordine, di sigle e siglette, di campi chiusi o aperti, formazioni, partiti e partitini nostrani, risultano riduttive quando addirittura non sono ridondanti o sterili.
Proprio per dare un minimo di sostanza al nostro ragionamento, crediamo sia il caso di partire da una duplice constatazione.
Da un lato, stupiscono in modo articolare i vari de profundis apparsi in questi giorni in merito alle sorti della sinistra italiana ed europea: perché è stata prestata così poca attenzione alle criticità cui la sinistra europea non ha saputo nei tempi più recenti far pesare i suoi valori? (un esempio su tutti: la crisi greca nel 2015). Ma, dicevamo, questa arrendevolezza, e dunque questa apatia, ha lunghe radici. Dopo l’ondata della “terza via” degli anni Novanta, quando sembrava necessario sostenere il business e non difendere i posti di lavoro né tanto meno il ruolo dello stato in economia, oggi i partiti di sinistra – democratici, socialisti o socialdemocratici che siano – paiono senza carte da giocare in uno scenario mondiale segnato dall’altra faccia della globalizzazione (ovvero, ad esempio, delocalizzazioni, ampie sacche di povertà nel “primo mondo”). Che novità, verrebbe da dire: l’attuale andamento così negativo è chiaramente da porre in connessione con quanto successo negli anni Novanta, quando i partiti di sinistra non soltanto non riuscirono a rispondere all’offensiva conservatrice neoliberista, ma finirono per esserne influenzati.
Dall’altro, stupiscono ugualmente le riflessioni sull’incapacità dei partiti di sinistra di riuscire a barcamenarsi in un contesto sociale segnato dalla lenta e al tempo stesso progressiva sparizione dei corpi intermedi (che nella secolare storia del movimento operaio erano invece stati uno dei punti di forza). Anche in questo caso non possiamo affatto ritenere di essere davanti ad una novità epocale. I corpi intermedi erano figli di una società di massa e non di una società liquida come quella odierna in cui, ad onore del vero, sembrano muoversi con maggior agio quei movimenti populisti che invece non paiono necessitare di strutture organizzate per far passare il loro messaggio programmatico-politico.
Per queste due ragioni non crediamo affatto che quanto avvenuto il 4 marzo possa essere considerato un fulmine a ciel sereno. Al contrario, deve essere posto in connessione con la lunga crisi che vive la sinistra europea quanto meno da un decennio, cioè da quando non è riuscita ad imporre la sua agenda di fronte all’esplosione della crisi economica nel biennio 2007-2008, che rischia così di diventare un vero e proprio turning point dell’epoca contemporanea.
Perché non c’è riuscita? Crediamo sia una domanda che ha delle ripercussioni anche sulla più stretta attualità. Probabilmente, perché aveva già da tempo rinunciato ad ipotizzare una politica intrinsecamente alternativa ai suoi competitors politici. Ma, forse, anche per due ragioni più profonde e, di conseguenza, di più difficile soluzione: l’aver vestito i panni dei “guardiani della stabilità” (è il caso del PD, ma anche della SPD tedesca) o, al massimo, di coloro che ambivano a miglioramenti di piccolo cabotaggio quando in vasti segmenti della società europea emergeva la richiesta di un’alternativa vera ad una quotidianità fatta sì di eccellenze ma anche di tanti aspetti complicati. Un dato è palese: nell’Italia del 2018, un paese segnato da profonde diseguaglianze non soltanto tra cittadini ma anche tra contesti urbani e luoghi periferici, se non ti poni ci si pone neanche l’obiettivo di configurare un’alternativa, si rischia davvero – come è avvenuto – di venire travolti da chi – volenti o nolenti – un’alternativa la ricerca e la propone.
Fine dunque della storia? Vogliamo credere di no, a patto che una possibile forza progressista si sforzi di aggiornare antiche battaglie che però hanno ancora un peso nelle nostre società. Non si tratta soltanto di tornare nei luoghi del disagio. Si tratta sicuramente di tornarci, lanciando però una sfida politica che parta da un presupposto: la nuova sinistra deve rimettere al centro dei suoi discorsi il concetto di equità, un termine che – come spiegava George Orwell – spingeva gli uomini a prendere le armi e a morire per la causa socialista. È un concetto semplice e al tempo stesso basilare: non è tanto una questione di ridurre il numero dei miliardari che vantano una ricchezza pari al PIL di quattro quinti di tutte le nazioni, quanto di provare a portare avanti coloro che invece, per le ragioni più varie, restano indietro e, non capendo come avanzare, vedono di buon occhio Le Pen e soci.
Quello che abbiamo scritto ha la forma di appunti disordinati. Ma l’obiettivo è chiaro. Al di là delle questioni più strettamente legate alla politica quotidiana (governo PD-Movimento Cinque Stelle si, no, forse?), crediamo sia imprescindibile iniziare a ragionare “nelle cose”, soprattutto per evitare due peccati che potrebbero poi pesare: ricadere nei tatticismi e sprofondare nello sconforto di chi sa di avere una lunga storia alle spalle e non sa come proseguire nel futuro.
Giacomo D’Alfonso, Jacopo Perazzoli
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