Partiti e politici

Parole per ritrovare la sinistra

7 Dicembre 2017

Per discutere dell’assoluta necessità – per la sinistra italiana – di ritrovare parole d’ordine proprie, si potrebbe partire dall’abbandono da parte di Pisapia del progetto di Campo progressista, ma si tratterebbe solo dell’ultimo tassello di un mosaico di profonda crisi identitaria che, dal venir meno delle ideologie storiche, ha colpito indistintamente tutti i partiti politici, ma che a sinistra ha dato gli esiti più “virulenti”.

Ricordiamo tutti l’accorato appello di Nanni Moretti che, quasi vent’anni fa!, nel suo Aprile, chiedeva a D’Alema di dire qualcosa di sinistra. Su quel “qualcosa di sinistra da dire” in tanti si sono interrogati – e cimentati – in questi anni, senza arrivare però mai ad affermare un nuovo modo d’intendere la sinistra, e di conseguenza, un nuovo agire politico. La politica infatti non si può esercitare in mancanza di parole. Dalla piccola discussione all’interno di una riunione di quartiere al dibattito parlamentare è attraverso l’esercizio verbale che si dà corpo – anzi voce – all’identià di uno schieramento, si dà consistenza a un pensiero, si generano risoluzioni.

La politica è linguaggio e in politica le parole fanno le cose.

Secessione, Onestà, Rottamazione, sono solo parole, ma richiamano immediatamente un profilo politico preciso. Allo stesso tempo però, in un’epoca di rapidità nella comunicazione e di altrettanto rapido consumo della notizia, sono ormai parole vecchie. Forse, in fondo, non hanno mai rappresentato qualcosa di realmente rivoluzionario. Nessuna di queste parole ha lo stesso portato semantico e richiamo ideale di termini che, nel contesto del primo dopoguerra, sembravano quasi evocare sprititi di un mondo nuovo: equità, sviluppo, democrazia, laicità. Nessuna la carica rivoluzionaria di certi slogan degli anni Sessanta/Settanta (“Vietato vietare”, “Il corpo è mio e decido io”, “Fantasia al potere”). Se Matteo Renzi ha avuto l’intuizione del messaggio giusto al momento giusto (e rottamazione suona forse come qualcosa di più articolato di un “A casa! A casa!” gridato fuori da Montecitorio), quello che è mancato – non tanto a lui quanto alla sinistra in genere – è stata una parola d’ordine in grado di tratteggiare il percorso di una vera innovazione.

In letteratura, per alcuni, vige il motto che “tutto è già stato detto, tutto è già stato scritto” e non si può che rielaborare all’infinito. Forse la stessa cosa vale per l’universo linguistico (e immaginativo) della politica.

Dovremmo quindi recuperare parole d’ordine passate? Vecchi slogan e vecchi schemi per reinterpretare il presente?

Qualcuno – e mi riferisco a Forza Nuova e Casa Pound in particolare – lo sta facendo e lo sta facendo piuttosto bene, in una grande operazione di nostalgia e risemantizzazione della realtà. Tornano le parole fasciste, ma sono buone per rispondere alle ansie della collettività: immigrazione, disoccupazione, perdita di potere della classe media.

A fronte di questo una sinistra litigiosa e frazionata sventola parole d’ordine generiche per realizzare discorsi complessi che non portano però a risposte. E se a sinistra si è sempre sostenuto che “non si possono dare risposte semplici a problemi complessi”, sembra proprio che nella complessità ci si sia tremendamente impelagati.

Molta teoria, un po’ di analisi, qualche momento di ascolto – quando si è fortunati – poca sintesi, nessuna chance comunicativa. La sinistra parla a se stessa, in un proliferare d’incontri, tavoli, dibattiti, convention di parti, fazioni, correnti, che si distinguono per lessico e parole chiave. Ormai esauste.

Che fare? Un’ipotesi, l’abbiamo già visto, è quella del recupero di vecchie parole d’ordine. Il movimento femminista l’ha fatto, anche con buoni risultati, ma si tratta di una “battaglia storica”, che non si è mai esaurita e che, mutati i tempi, non è mutata, perché ancora valgono le stesse rivendicazioni. Lo stesso non si può dire delle parole d’ordine del movimento operaio, fosse solo per il fatto che una classe operaia, intesa nei contorni dei grandi movimenti di protesta della seconda metà del Novecento, non esiste più. Non esitono più nemmeno le classi. Un recupero sembra dunque puro esercizio di storia della lingua.

Un’altra ipotesi potrebbe essere quella di utilizzare parole davvero nuove  che generino un nuovo approccio al fare politica, a sinistra. Parole che sappiano rispondere al bisogno d’immediatezza, che non si scandalizzino della scarsa voglia (o scarsa pazienza) nell’ascolto delle nuove generazioni, che non coltivino un atteggiamento snob nei confronti di ciò che è semplice.

Semplicità come primo spunto e prima parola d’ordine.

Non esistono risposte semplici a problemi complessi, ma esistono parole semplici con cui cercare di coinvolgere le persone, avvicinarle, spiegare quanto sta avvenendo intorno a loro. Semplicità che porta con sé umiltà nell’approccio, capacità di sintesi, facilità nella comunicazione, anche non verbale.

A semplicità si lega – mi si perdonerà la rima – la seconda parola d’ordine, quella credo più importante: sincerità.

Negli ultimi trent’anni abbiamo vissuto contesi fra due poli: quello del sogno del “ci penso io” e “la crisi non esiste” e quello del “la crisi c’è ma è troppo complessa e frutto di sistemi troppo elaborati per potervela spiegare” quindi “servono sacrifici”, ma motivati da fatti incomprensibili ai più. E così fra il sogno e un pessimismo comprensibile solo a un’eletta schiera, si sono configurati gli assetti. Nessuno dei due poli ha mai esercitato – se non sporadicamente attraverso qualche personaggio – la sincerità. Termine che non significa dabbenaggine buonista o spietatezza, ma – coniugato appunto con semplicità – capacità di rendere edotta la cittadinanza su ciò che sta accadendo, senza vendere sogni, senza ricamare prospettive irrealistiche.

E vengo all’ultimo termine di questo – già troppo lungo – pezzo: attendibilità.

Ci siamo disabituati a parlare di dati, a coltivare un pensiero “scientifico”, con il quale intendo un pensiero basato sui fatti, sulla realtà e non sul mito. Lo storytelling politico si è trasformato da strumento per il racconto della realtà a mezzo per la sua costruzione, non priva di pesanti distorsioni. Riportare gli elementi certi al centro del dibattito è un dovere della sinistra, come un dovere è farlo con semplicità ed esporsi con sincerità, con la consapevolezza di esporsi a giudizio che potrebbe essere anche profondamente critico, ma – al contempo – di costruire relazioni. Proprio queste mancano nella politica di oggi, non solo le reti, non solo i “corpi intermedi“, ma le relazioni, individuali e collettive, che si possono generare solo a partire da una sincera esposizione in prima persona, senza fare costantemente appello alla pancia, con tutta la complessità richiesta.

Questo processo implica certamente un rischio, perché la verità fa male e la sincerità è il suo strumento, però è anche l’unico mezzo per provare a praticare il vero cambiamento. Nella vita, come per la sinistra.

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