Partiti e politici
Nel paese stanco di democrazia, stravince il Novecento di Berlusconi
Un’affluenza ridotta ai minimi termini, lontana di circa tre punti rispetto al 50% degli aventi diritto. Una bassa affluenza che fa tanto più impressione se, scorrendo i dati, si scopre che il calo dell’affluenza è devastante soprattutto al nord, tradizionalmente più “fedele” alla partecipazione democratica. E del 47% degli aventi diritto che decidono di andare a votare, una maggioranza consistente sceglie, in ballottaggi quasi tutti votati all’antico bipolarismo centrodestra vs centrosinistra, per quel che resta dell’epopea berlusconiana, e per i suoi candidati. Fa e farà rumore la vittoria, a Genova, di Marco Bucci, in una delle storiche roccaforti della sinistra italiana. Delle lotte dei camalli e dei racconti mitologici di una città di vecchi compagni resterà solo qualche sbiadita fotografia in biancoenero e i racconti dei superstiti. Adesso, con un sindaco di centrodestra che vince di dieci punti e una regione in mano a Giovanni Toti – attenzione: non è De Gaulle, nel caso vi sia venuto il dubbio – sarà difficile non chiamare col suo nome il tempo in cui si parlava di terra di sinistra: e il suo nome è “passato”.
Naturalmente, sarà facile dire che non è un voto “nazionale” e, se si fosse in buona fede, nel dirlo, si vedrebbe riconosciuta la banale verità di questa affermazione. Al voto erano chiamati dieci milioni di italiani, un quarto degli aventi diritto, e a votare sono andati, a questo secondo turno, meno della metà di quanti potevano farlo. Quindi è chiara la misura non esaustiva, sul piano nazionale, del test. E tuttavia, negare al risultato un valore e una rilevanza ben più che locali non sarebbe onesto. La dimensione nazionale del risultato risulta piuttosto netta se si mette in fila l’elenco delle sfide, e i risultati raccolti. Di Genova abbiamo detto. In Lombardia si torna ai tempi della Bulgaria berlusconian-leghista, e ci manca un po’ (battuta) Emilio Fede che mette bandierine su Como, sulla Lodi di Lorenzo Guerini, sul lago di Como, sulla Monza storica roccaforte del centrodestra ma finita al centrosinistra quando il berlusconismo sembrava (ragionevolmente) destinato per sempre alla naftalina, e persino nella Sesto San Giovanni, storica Stalingrado d’Italia. Risultati netti, univoci, brutali, in una regione che appena qualche settimana fa sembrava contendibile, da parte di Giorgio Gori. La finestra che sembrava socchiusa risulta di nuovo sigillata.
Scendere lungo la latitudine di un paese che inizia in Austria e finisce a sud delle coste tunisine arricchirebbe di dettagli, ma non cambierebbe la sostanza dell’analisi. In un ballottaggio che – per definizione – riporta al bipolarismo, e nella contingenza ha riportato a un bipolarismo tradizionale tra centrodestra e centrosinistra, ha vinto il centrodestra. Quello con Salvini a fare a pugni in giro per strada, e Berlusconi a fare la faccia moderata e ragionevole. Nessuno dei due vuole ammetterlo, ma entrambi hanno bisogno l’uno dell’altro. Un bisogno disperato, ineludibile, quasi soffocante, almeno quando si va a votare nell’uno contro uno. Non è, questa sonora ed evidente sconfitta del Pd, una sconfitta del Renzi leader politico e uomo di governo. Non ha dominato, probabilmente, un voto anti-renziano. È, invece, una nettissima sconfitta del Renzi segretario di partito, che si è intestardito nel fare un mestiere – quello del segretario del Partito Democratico – che richiede doti di pazienza, conoscenza, competenza territoriale, voglia di lavoro controvento e fuori dalle luci, che richiedono doti che egli non possiede, e che a larghi tratti disprezza. È la sconfitta di chi ha distrutto un partito vecchio e arroccato nel suo passato, ma non l’ha ricostruito. Passando il tempo a dare la colpa a Bersani, D’Alema, Speranza e via via scendendo, ha creduto che si generasse, naturalmente, una classe dirigente in grado di fare campagna elettorale, rappresentare interessi, mediare, litigare con gli alleati e con gli avversari, decidere quali buche riempire e quali piani di governo del territorio approvare: in sostanza, di fare politica. Non era così, non è così, e bastava ascoltare qualcuno che pronunciasse parole più articolate del monosillabo “sì” per farsi almeno venire il dubbio. Non è successo, e adesso la mappa è davanti agli occhi di tutti. Non susciterà autocritiche, non farà venire dubbi, e siamo certi che – come spiegato in un documentato retroscena pubblicato da Repubblica e firmato oggi da Goffredo De Marchis – qualunque esito servirà a Renzi per tentare una nuova accelerazione. Forse sarà meno facile ottenerla, se conta qualcosa la subitanea ammissione di sconfitta di un fedelissimo, ma di stretta osservanza franceschiniana, come Rosato.
Fuori dal palazzo, lontano dal giochino che mima il potere di Renzi e dei suoi avversari, qualcosa però succede. Succede e sfugge al voto estenuato del popolo a suo modo resiliente del centrodestra berlusconiano. Succede in due città del Nord Italia, che sono Parma e Padova. Nella prima, la prima capitale grillina subito ripudiata perché il sindaco voleva troppo fare di testa propria, per i gusti dell’algoritmo della Casaleggio e Associati, Federico Pizzarotti al ballottaggio vince in scioltezza. Vince come aveva vinto cinque anni fa, contro il centrosinistra, come se niente fosse successo, nel mezzo. Vince perché ha stabilito un rapporto con la sua cittadinanza, la sua base elettorale, che evidentemente ha imparato a fidarsi di lui, a riconoscerli lavoro e valore. Compie fino in fondo, ma liberandosene e non senza durezze, il cammino del Movimento che lo sostenne a suo tempo: è un cittadino, che fa cose, in nome dei cittadini. Prendere nota, è una lezione che servirà, a chi vorrà capirla. L’altra storia della notte arriva da Padova. Sergio Giordani, imprenditore sessantenne, già presidente del Calcio Padova, colpito da un attacco ischemico che non lo ha fermato poche settimane fa, ha raccolto attorno a sè moderati e sinistra sinistra, civismo e volontariato padovano, il piccolo gregge del Pd, e ha vinto, portando al voto molta gente in più rispetto alla media regionale. Questa vittoria, con ogni probabilità, non sarebbe stata, senza il sostegno, fondamentale, di Arturo Lorenzoni, candidato civico, di sinistra ambientalista, che al primo turno ha addirittura sperato l’impresa di andare al ballottaggio. Insieme, grazie a un formale apparentamento al secondo turno, han battuto il leghista Bitonci, e una politica identitaria che, appena qualche decina di chilometri più a ovest, a Verona, ha mandato al ballattaggio una candidata leghista e un candidato ex leghista. Forse, da esperienze come queste, non esportabile a livello nazionale, certo, ma nemmeno rubricabili a episodi microlocali, ci sono alcuni insegnamenti che valgono per tutti. I cittadini, gli elettori, cercano ancora facce vere con cui confrontarsi, pensieri e parole da discutere, cui aderire o da criticare, hanno ancora voglia di vera politica che qualcuno la offre a loro. Quelle di Padova e di Parma sono storie che fanno credere all’impegno di qualcuno, per raccogliere l’impegno di molti, al di là e al di furore delle vecchie nomenclature. È una lezione, questa, che arriva dritta sul tavolo di tutti i leader politici. Ci piace pensare che, tra i più disposti ad ascoltarla, ci sia l’ex sindaco che promette di costruire uno spazio di politica diversa e migliore. Avete indovinato, no?
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