Partiti e politici

Milano, Roma, Palermo: lontano dagli amati palazzi Renzi non tocca la palla

28 Luglio 2015

Le situazioni sono molto diverse tra loro, e vale la pena di dirlo subito. A Milano c’è un’esperienza di giunta, quella di Giuliano Pisapia, che si conclude più che dignitosamente relativamente ai risultati raggiunti e all’umore complessivamente diffuso attorno a sé. Merito, nonostante tutto, di Expo2015? Fortuna nell’aver ereditato alcuni grandi progetti lanciati precedentemente e arrivati a maturità dopo anni di cantieri nel quinquennio di Pisapia? Sicuramente. Ma anche merito, più d’uno, a una giunta e ad un’amministrazione che qualcosa di buono hanno fatto, e hanno dato sempre, nel complesso, la sensazione di lavorare comunque per la città. Il bel clima ereditato sarebbe diventato il naturale punto di leva per una candidatura-bis di Pisapia, se questa candidatura ci fosse stata. La sua rinuncia ha portato già a un paio di candidature serie e concrete, come quelle di Emanuele Fiano e PierFrancesco Majorino, a un altro paio (almeno) di candidature possibili, e in generale all’accelerazione di processi di disgregazione di un blocco di rappresentanza.

Roma e il caos siciliano sono vicende molto diverse. Vicende molto diverse tra loro, per carità, ma accomunate da un condiviso, serpeggiante, giganteggiante giudizio negativo sull’azione politico-amministrativa di Ignazio Marino e Rosario Crocetta e dalle loro giunte. Problemi atavici non risolvibili in pochi anni di governo, non c’è dubbio. Drastici tagli agli enti locali e obblighi (tardivi, e messi a terra tutti d’un colpo) di risanamento, soprattutto per Roma, sommati a giunte ed esperienze politiche improvvisate e a bagagli di competenze amministrative quantomeno fragili. Il resto, sempre per stare a Roma, lo hanno fatto errori di posizionamento tattico, e l’esplodere di questioni morali e giudiziarie che covavano da tempo, a Roma, e il misterioso e inquietante episodio dell’intercettazione mai certificata.

In tutti e tre i casi, molto diversi, ci trovavamo di fronte a governo di centrosinistra, regolarmente eletti, con una forte componente del Pd che, dopo l’affermazione di Matteo Renzi e la sua fulminea ascesa a premier da segretario appena incoronato, era naturalmente chiamato a un ruolo di ovvia guida. Nella buona e, soprattutto, nella cattiva sorte. Quel che abbiamo visto è che Matteo Renzi e il suo partito, in tutte e tre le vicende, si sono trovati finora ad inseguire, ad arrancare, a lanciare messaggi soprattutto utilizzando il (non trasparentissimo, diciamocelo) strumento del retroscena giornalistico per poi ritrarre la mano e ritracciare di fronte alla realtà. Una realtà che è più complessa e stratificata di quella che si vede dai palazzi del potere romano.

Così, a Milano, si è lasciato che Pisapia a un anno dal voto si facesse da parte e anzi – per chi ha memoria di cosa succedeva in città – si è lasciato che la Renzi Jugend cittadina spingesse verso questa soluzione. Forse anche a causa di qualche incomprensione personale-politica, e forte di quella visione dorata e facilone che faceva credere che il 40% fosse ormai una soglia minima acquisita per sempre, si è lasciato che la dinamica milanese prendesse velocità in modo spaventoso. Mentre i primi candidabili, legittimamente, pensavano a candidarsi e magari lo dichiaravano, si mandava a Milano Lorenzo Guerini a dire che “le primarie non sono un dogma”, pensando di imporre Giuseppe Sala, ad di Expo2015, come candidato unico ma senza aver davvero verificato la fattibilità della cosa. Dando perfino quell’impressione di commissariamento romano-fiorentino che obbligava anche i più renzianissimi di Milano a dire che no, così non si poteva proprio fare.

Così, a Roma, si è lasciata giganteggiare Mafiacapitale. Si è mandato un politico romanissimo come Matteo Orfini a mettere le mani nel fuoco e nel fango con il mandato, inizialmente, di provare a ripuntellare Marino, a dargli nuova linfa, tanto che davanti ai grillini che gridavano alle dimissioni l’ex braccio destro di Massimo D’Alema annotava che “era la stessa posizione della mafia”. Nessuna parola, dal centro e dalla periferia, sulla cattiva gestione, su nuovi fondi da destinare oculatamente a una città che cade a pezzi. Poi, d’improvviso, dopo la vittoria mutilata alle regionali, Renzi cambia drammaticamente verso. Sconfessa Orfini, spiega che Marino non deve “stare tranquillo” da Vespa, e poi inizia a disseminare per giorni consecutivi la stampa nazionale di virgolettati confidati “ai suoi” in cui “Marino ha i giorni contati”, è il momento che se ne vada, che a Roma si deve votare nel 2016 come a Milano perché così almeno “ce la giochiamo”. Non per Mafia Capitale ma per un governo debole che, improvvisamente, viene messo al centro della scena e additato, neanche troppo velatamente, come responsabile dei deludenti risultati delle amministrative. Ma la relazione del prefetto Gabrielli non offre le sponde sperate e al piano-Renzi – giù corredato di nomi di futuri candidati, ovviamente – manca la terra sotto i piedi. Così, Marino resta al suo posto, indebolito e vagamente commissariato, e tutti potranno dire di aver vinto, anche se è più facile che sia vero il contrario.

La Sicilia, infine, è un’altra storia esemplare. Anni di giunta deludente, sostenuta da vecchi arnesi isolani e protetta mediaticamente dall’aura e da qualche cognome solidamente legati all’antimafia, quando scoppia lo scandalo di Tutino non pare vero, a Renzi, di ricominciare da capo, sulla scia di quanto accaduto con Marino. Così, Crocetta ha le ore contate, è ora di fare da capo, è ora di fare pulizia, e così via. parole analoghe, mezzi simili, obiettivi sovrapponibili. Solo che, piano piano, le rivelazioni dell’Espresso assumono contorni inquietanti, non si capisce se ci sono, se sono legali quelle intercettazioni, e quali siano i poteri che si muovono dietro a certe pressioni. E ancora una volta, piano piano, il passare dei giorni dà l’impressione che niente di quel che doveva cambiare in poche ore riuscirà a cambiare in qualche mese. Non si entra qui, nel merito, delle decisioni, delle scelte, degli obiettivi politici – tutti legittimi – di Renzi e dei “suoi”: ma si valuta l’efficacia di un’azione e il realismo con cui la si progetta.

È proprio qui, in questa debolezza strutturale, che le tre città da cui partimmo, tanto diverse in generale e in particolare, trovano un punto di incontro, mostrano elementi politici strutturali assai simili, almeno in relazione con il pd e il suo segretario presidente del Consiglio. Perché tutte e tre le volte – e molte altre, si pensi alle ultime regionali, dalla clamorosa sconfitta ligure, al tremendo tonfo veneto o alla vittoria non certo renziana di Vincenzo De Luca in Campania – quel che si vede è che il partito di Renzi è un partito troppo leggero, troppo poco esperto, troppo poco strutturato per controllare dinamiche di territorio profonde, radicate, in definitiva politiche. Si vede, oggi, che il processo lampo che porta in cinque anni dalla Provincia di Firenze al tetto d’Italia ha degli ovvi punti di debolezza. Nelle competenze, nel radicamento, nella capacità di trasmettere conoscenza della realtà dal centro alla periferia e viceversa, nel rappresentare – al di là delle smanie da comunicazione distillata in 140 caratteri – gli interessi diffusi. In una parola, manca la solidità complessa che serve a governare i grandi cambiamenti, e a guidarli con la dovuta forza, con la necessaria fretta e l’indispensabile pazienza. Le carenze mostrate ci sembrano gravi se pensiamo alle principali città italiane e ci appaiono anche più gravi se pensiamo ai bisogni di cambiamento che mostra a ogni passo il nostro paese. Fare non è promettere. Promettere e poi non mantenere ha effetti molto deludenti e frustranti. È una cosa che si impara da bambini, e ormai anche il renzismo è diventato grande. O no?

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