Partiti e politici

Un semplice senatore o l’assenza della sinistra

3 Maggio 2018

All’indomani della rottura del silenzio da parte dell’ex segretario del Partito Democratico, l’albero delle consultazioni è maturato al punto giusto per provare a darne un’interpretazione; dall’alveare di dichiarazioni che ogni giorno si succedevano discordanti è emersa una situazione forse più definita. Non ancora una Terza Repubblica, ma una pericolosa direzione di isolazionismo politico dei partiti maggiori che sta sfociando nel parossismo dell’apolitica. Le campagne politiche sugli assoluti non nascono certo ieri eppure l’amplificazione delle divergenze, l’esasperazione comunicativa dei nostri giorni anziché favorire la conoscenza delle varie voci di palazzo fa da riverbero alle spaccature; il senso dell’odio e del contrario, il ribrezzo per l’altro accentuati finché non è più accettabile per gli elettori nessuna commistione. Potevamo essere fiduciosi che si giungesse ad un accordo e che infine la dialettica democratica trionfasse, ma ahimè non avevamo fatto i conti coi calcoli elettorali del Partito Democratico, l’unico effettivamente in grado di poter proporre i numeri e serie intenzioni di intesa con il primo partito, il Movimento 5 Stelle (troppo forte l’aura del “vecchio caimano” per auspicare l’accordo con la Lega).

Se si andrà come pare a votazioni, quello che avremo sul piatto di giugno o di settembre non sarà solo un menù di proposte, ma sarà la qualità democratica del nuovo corso che si prospetta nei prossimi anni. Una scaduta possibilità di accordi che affonda le sue radici nel berlusconismo e nella sua prosecuzione renziana per raggiungere l’apice attuale nell’opposizione dei “cinque stelle”. La Lega è un partito tutto sommato di destra demagogica dai canoni più classici, che con la terra battuta dagli altri coprotagonisti e pionieri dello sdoganamento della retorica dell’irretire è lievitata nei consensi. Se da una parte Berlusconi negli anni ’90 incarnava lo spirito di un’epoca, questo stesso fantasma yuppistico gongola tra i risvolti della bianca camicia di Renzi, più Clinton che Reagan certo, ma comunque prosecutore di un’ideologia da pensiero unico che prevede l’americanizzazione del lavoro italiano e che riesce a spacciarsi per un personaggio di sinistra (addirittura alcuni spergiurano sia un austero marxista alla Cossutta) per delle politiche di apertura sociale già obsolete nella California che votava il repubblicano Schwarzenegger.

Siamo invece di fronte all’uomo che alla sinistra social democratica ha deposto con alterigia la corona di fiori sulla tomba, personalizzando il partito che flebilmente cerca di controbattere all’appena trascorsa uscita televisiva: <<chi ha perso non può governare>>. Una frase che riassume la semplificazione popolesca a cui tende il personaggio. Il PD non ha né perso né vinto; non c’è in politica un vincitore che prevale, c’è un compromesso tra parti che dialetticamente si accordano sul bene comune dei cittadini. Democrazia significa questo, non libertà di opinione. Ma il rischio è proprio l’annullamento del dialogo politico a cui tutte le parti sembrano concorrere; pare necessaria una maggioranza che prevalga e prevarichi l’opposizione, come in un incubo tocquevilliano, e parlare di nuove elezioni alla stregua di ballottaggio o auspicare un modello francese non fanno che sfilacciare il tessuto democratico.

Tutti i quattro partiti maggiori hanno da sempre dato segni di problematiche democratiche interne e non solo, andando dal partito azienda proprietario di Berlusconi, al ruolo di Grillo e alle espulsioni nel Movimento, oppure da Maroni che definisce Salvini uno stalinista, allo strano concetto di manifestazione popolare del ministro Minniti, il quale voleva sospendere il corteo dopo il terrorismo a Macerata che aveva coinvolto direttamente una sede PD e alla quale marcia però non prese parte nessun esponente del partito.

Nel renzismo, e nel berlusconismo con qualche libera scorciatoia in più, è l’uomo qualunque che può fare strada e riuscire ad emanciparsi dalla classe proletaria, ormai classe media; ma l’emancipazione economica non segue quella culturale e dunque si ricade nell’eccessiva semplicità iconografica. L’uomo che va in bici è una persona che pedala, attiva; un aforisma di Oscar Wilde, la banalità intellettuale che apre il tuo libro dal titolo “Avanti”, il progresso, non umano ma economico. E in questa ottica i “grillini” sarebbero gli incapaci, coloro che vogliono abbattere la meritocrazia di chi il posto l’ha guadagnato con fatica. Un gruppo di inetti eletti da loro stessi. Questo modello però non funziona perché il meccanismo si è inceppato, non c’è più serenità economica, non c’è più spazio per tutti, la bolla di aspettative è scoppiata; e per gli elettori pentastellati la mancata possibilità arriva esattamente dalle colpe della vecchia politica (dove nell’immaginario il vecchio parte da Monti, Prodi è già preistoria)

Allora puntare nella direzione dell’inconciliabilità e del comunque esser contro ai privilegiati, anche se solo formalmente, funziona perché la strategia del nemico comune contro cui lottare soprattutto se è facile detestarlo e identificarlo è ben rodata ed infatti rappresenta una similitudine comune tra le demagogie.

Però il programma di Luigi Di Maio è solo diverso nella forma rispetto a questa politica, dicevamo, ade esempio perché al maggior sollievo fiscale in linea con la coalizione di destra abbina anche il famoso reddito di cittadinanza che è in realtà, nonostante sia mascherata da assistenzialismo, una riforma contraria alla tutela del lavoratore non essendo un incentivo per un vero salario minimo garantito, non permettendo libera scelta delle caratteristiche di impiego e mantenendo privati i profitti pubblicizza i costi . Il governo Di Maio proporrebbe dunque scelte economiche di stampo liberista, sebben la velata destra a cui accomunarlo è più quella oligarchica che quella atlantista. Come sì può pretendere di rinnovare la situazione economica e quella sociale delle persone se ci si aggrappa ancora a programmi da Troika? Le persone son stanche di essere sfruttate, ma non hanno ancor capito chi le sfrutta. E non è questione di perdita di privilegi come vuol far credere Matteo Salvini (prima gli italiani), è un discorso macroeconomico più ampio.

Il populismo che ha dato l’imprinting a questa Terza Repubblica e che pervade tutti i partiti maggiori è la voce del popolo mal incanalata che dice a gran voce basta alla propria condizione: l’appannamento mentale zuccheroso ha sortito il suo effetto, ma prima o poi la catalessi televisiva evapora e occorrerebbe un’inflazione culturale che invece manca. Ogni partito si dichiara post-ideologico con una fermezza tale che è una nuova ideologia: il rifiuto per ogni forma di pensiero critico sviluppata in decenni di storia avviene con fredda metodicità e stagnazione conservatrice, a cui va imputata l’assenza di un governo. Andiamo dunque al “ballottaggio”, oppure formiamo l’esecutivo con indolori appoggiucci esterni, tanto ormai la destra più o meno centrista non può che vincere in quanto è l’unica cosa rimasta; e senza sinistra come può esserci dialettica? Come può esserci democrazia?

0 Commenti

Devi fare login per commentare

Login

Gli Stati Generali è un progetto di giornalismo partecipativo

Vuoi diventare un brain?

Newsletter

Ti sei registrato con successo alla newsletter de Gli Stati Generali, controlla la tua mail per completare la registrazione.