Partiti e politici
Laboratorio Lombardia, dove il passato è l’ultimo a morire
Nella giornata di venerdì ho avuto l’occasione di incontrare i quattro candidati alla presidenza della Regione Lombardia. Assieme al collega Marco Cremonesi del Corriere della Sera, infatti, sono stato invitato da Legacoop e Confcooperative Lombardia a intervistarli tutti e quattro, uno dopo l’altro, davanti a una platea di esponenti del mondo cooperativo regionale. Sono state ore interessanti, abbiamo potuto confrontarci sui programmi per la regione ma anche sulla visione politica nazionale – il presidente della più importante regione italiana non può non averne una – di Dario Violi (M5S), Onorio Rosati (LeU), Attilio Fontana (centrodestra), Giorgio Gori (centrosinistra).
È stata un’occasione preziosa, e abbastanza rara di confronto con i candidati. Anzitutto, non sono arrivati da nessuno diktat sui temi da trattare o su ciò di cui non si deve parlare. A qualcuno forse sorprenderà la precisazione, ma è bene sapere che quasi sempre l’intervista a un politico è preceduta da una più o meno lunga negoziazione sui temi da trattare, su quelli da lasciare fuori, sulle domande che non devono essere fatte. In questo caso a noi intervistatori non è arrivato alcun segnale di “censura” preventiva, e così è stato più facile “farsi un’idea”, come si dice in questi casi, dei soggetti seduti vicino a noi, di quel che pensano, delle loro idee e anche, perché no, dei loro caratteri.
Il primo a prendere la parola è stato Violi. Bergamasco delle sponde del Lago d’Iseo, un ragazzo di 32 anni che dà l’impressione, seria, di essersi dedicato seriamente alla politica e alla regione in questi cinque anni di consiglio regionale. L’imprinting grillino ovviamente c’è e si sente, il richiamo alle inchieste della magistrature come continua fonte di legittimazione del malcontento e della necessità di cambiare tutto, il richiamo martellante alla necessità di trasparenza, l’aspirazione a “codificare” in maniera totale ogni interesse rappresentato che si affacci sulle soglie del palazzo. Tuttavia, ben al di là di questo, è su diversi temi tecnico-amministrativi che Violi mostra di aver studiato. Spiega di come si è adoperato presso il parlamento nazionale perché venissero rifinanziati alcuni fondi di interesse regionale. Racconta di come ha potuto verificare che le politiche agricole della regione non siano soddisfacenti nè per i piccoli, nè per i grandi. Insiste sulla necessità di valorizzare, nel rapporto con le istituzioni, la cooperazione sana e non “quella di Mafia Capitale”. Provocato sulle fatiche della giunta Raggi, spiega che le situazioni sono diverse e incomparabili, soprattutto perché diversa era la situazione di partenza. Infine, richiesto dal presidente di Legacoop Lombardia Luca Bernareggi, risponde che secondo lui era indispensabile che qualunque carica istituzionale, di qualunque colore politico, andasse a trovare le vittime dell’attentato razzista di Macerata, proprio come si sarebbe fatto senza esitazione se le vittime fossero state italiane.
È poi il turno di Onorio Rosati, ex sindacalista (riformista) della Cgil, poi consigliere regionale (eletto col Pd), e ora candidato presidente di Liberi e Uguali. Rosati delinea tutte le parole d’ordine della “candidatura di testimonianza”. Cerca ad ogni passaggio di conquistare (senza riuscirci) l’applauso della platea dei cooperatori, esaltando la funzione e il ruolo della cooperazione. Sul punto politico più dirimente – la decisione di stare fuori dal centrosinistra, e anzi di contribuire potenzialmente alla sconfitta di Gori – riporta due argomenti: il primo, politico-nazionale, è che sono le politiche del centrosinistra renziano ad avere resa necessaria e irrevocabile la rottura di ogni patto; il secondo è il voto favorevole di Gori al referendum sull’autuonomia promosso da Maroni. Sul primo punto, quando gli chiediamo perché allora LeU sta in coalizione con Zingaretti nel Lazio, spiega che là il metodo è stato più inclusivo, e che la biografia di Zingaretti lo è altrettanto. Lascia la sensazione, però, di una distanza dai temi sul tavolo, e di una proiezione politicista che, se ha una sua solidità in una battaglia nazionale, fatica davvero a spiegarsi in modo convincente sul tavolo della regione, una regione governata da 23 anni filati dalla destra.
Quella destra che oggi ha la faccia smagrita di Attilio Fontana. Anche oggi ha rifiutato fermamente il confronto diretto con gli altri candidati e in particolare con Giorgio Gori, è tornato a scusarsi – “è stato uno strafalcione, di cui mi pare di aver pagato delle serie conseguenze” – per le frasi sulla “razza bianca”, e ha evitato con abilità da politico navigato e da avvocato di successo il confronto sui temi più concreti. Le sue risposte state sempre vaghe, attente a non rischiare di sembrare impreparato o divisivo. È parso davvero sul pezzo solo quando ha potuto ricordare la sua esperienza pregressa di amministratore e di rappresentate lombardo dell’Anci, di quando litigava anche col suo governo di riferimento nell’interesse dei cittadini lombardi mentre poi, quando al governo c’era il centrosinistra, non aveva visto i colleghi sindaci di quella parte politica pugnaci come lo era stato lui. La sensazione che ha lasciato è quella di chi non padroneggia bene una materia di cui è stato chiamato ad occuparsi “last minute” e, forte del vantaggio di cui è accreditato, preferisce non rischiare: perché nel rischio ha tutto da perdere.
Un po’ il rischio opposto a quello che corre Giorgio Gori. Parte in svantaggio, uno svantaggio tecnico sedimentato da decenni e che incrocia una contingenza politica assai sfaverovole per il partito che lo candida e per tutta l’area politica. La defezione di LeU di certo non aiuta, ma è solo l’aggravio di una situazione già faticosa. Gori la regione l’ha studiata: negli anni in cui ha fatto il sindaco e nei mesi in cui si è preparato alla candidatura. L’ha studiata lui e il suo staff, e si vede. È preciso su Finlombarda e su Aler, tanto da auspicare una scomposizione della struttura e dei problemi sui livelli cittadini; è attento sulla questione immigrazione, e propone ricette concrete che chiamano in causa anche le politiche nazionali, criticando la misura del bonus da 500 euro per ogni profugo accolto, mentre lui aveva proposto di legare all’accoglienza lo sblocco del turnover nelle assunzioni comunali, in modo da mettere in crisi anche i sindaci leghisti contrari. Infine, e per sintetizzare, è anche coraggioso politicamente, quando ricostruisce i meriti dei governi di centrosinistra ma anche le colpe del Matteo Renzi segretario che, nella sue parole, ha costruito la strada stretta in cui si trova ora leggendo in maniera totalmente sbagliata la realtà, e chiudendosi in un fortino di perenne sfida personalistica al resto del mondo. Ha mostrato la fiducia che serve per provare a vincere una partita difficilissima, scommettendo nonostante tutto sulla propria vittoria.
A quattro settimane dal voto nella prima regione italiana resta la sensazione che, insomma, ci sia chi ha provato e sta provando a cambiare la dinamica della politica lombarda. Ma nella prima regione italiana, nella più ricca, nella più industrializzata e innovativa, il passato sembra non aver ancora voglia di passare. Se così sarà, sarà bene finalmente prendersi carico di una traversata nel deserto ogni volta annunciata e sempre rinviata. Diversamente, dovremo commentare un miracolo, e renderne merito a Giorgio Gori. Nel mezzo, tutte le proporzioni di una vittoria e di una sconfitta, che potranno darci indicazioni su come cambia la geografia mentale della Baviera d’Italia. Sfumature complesse che, come al solito, rischieranno di andare perdute nelle battaglie personalistiche combattute sulle ennessime macerie del centrosinistra italiano.
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