Partiti e politici
La provincia dimenticata urla la sua rabbia e spazza via Renzi e Berlusconi
Il re è nudo, e là fuori fa un freddo cane. Il risultato delle elezioni non darà a nessuno la maggioranza che serve per governare, ma dice a tutti una verità che non si può nascondere o piegare a patetiche esigenze di propaganda. La conta dei voti restituisce la fotografia iperrealistica di un paese che chiede protezione, che apre crediti ad avventure ancora ignote e boccia senza appello il proprio passato recente e quello remoto. Prima di distribuire i torti e le ragioni, proviamo a contare le sfumature del verde, del giallo, del rosso e del nero. Prima delle futuribili alchimie parlamentari, con cui già si stanno dilettando analisti e politici, conta la brutale sacralità con cui si espresse il popolo sovrano, il giorno 4 Marzo del 2018.
Il Movimento 5 Stelle fa il vuoto dietro a sè con una cifra vicina al 32 per cento dei consensi. In termini assoluti, supera gli 11 milioni di voti. Ironia e sapienza della sorte, cifra assai simile a quella totalizzata dal Pd renziano nel suo transitorio trionfo delle Europee del 2014. Il Movimento guiato da Luigi Di Maio e Davide Casaleggio attraversa quindi con nonchalance le grandi fatiche dell’amministrazione romana, le polemiche e gli scandaletti sulle candidature o sui rimborsi, e arriva smagliante all’appuntamento che conta. Chi li ha irrisi, sottovalutati, dati per finiti, e chi ne ha fatto il nemico principale di campagna elettorale, dovrebbe dunque seriamente riflettere e poi valutare se cambiare mestiere. Il Movimento fondato Grillo e Casaleggio si dimostra invece una strepitosa macchina di consenso, un sismografo millimetrico capace di intercettare le scosse telluriche più remote. Sa promettere protezione a chi la vuole; sa giurare innovazione politica e sociale a chi ci crede; sa baciare la reliquia di San Gennaro e diffondere il verbo con l’algoritmo. Il pallino per un tentativo di governo cadrà probabilmente altrove, e non sappiamo quanto siano dispiaciuti dalle parti di Di Maio o Casaleggio. Ma da adesso in poi far arrivare proposte politiche sul loro tavolo non sarà più una questione di cortesia.
Le sembianze e i nomi antichi che il Centrodestra ha portato sulle schede elettorali, e fino alla vittoria, non possono ingannare: il cambio di pelle e di anima sono radicali. Proprio in questo cambiamento profondo è la salvezza e la vittoria di questo spazio politico, profondamente radicato nel nostro paese, che comunque si troverà, a conti fatti, ancora al centro della scena nei prossimi anni e, tanto più, nei prossimi giorni. L’eredità che Silvio Berlusconi non ha mai voluto lasciare, il testimone che a nessuno davvero ha mai voluto affidare, gli è stato strappato da un leader più giovane, veloce, contemporaneo e cattivo di lui. Come capita sempre in questi casi, del resto. Matteo Salvini è il nuovo capo della destra italiana, e così ci abituiamo da subito a chiamare le cose col loro nome. Del moderatismo tremebondo, anticamente anticomunista, antropologicamente impolitico, pacificamente arcitaliano che fu il centro berlusconiano, restano quattro milioni di ultrasettantenni attaccati alla tv. Dai loro salotti elargiscono welfare familiare alle generazioni più giovani, ma il tempo presente e quello futuro non sono per loro. Come non sono più, definitivamente, per quell’uomo che a lungo li ha fatti sognare. Del resto, se Silvio ci lasciasse all’improvviso, mostrerebbero quanto vacua è stata la scommessa di chi pensava di attrarli in un partito di centro nato a sinistra, come il Pd, perché voterebbero in massa, condividendeno le paure, gli stereotipi e la lingua, assieme al popolo di Matteo Salvini.
Quello del leader è una lunga marcia che inizia nei centri sociali di Milano, più di vent’anni fa, passa per fantasie di comunismo padano, per legislature segnate dalle assenze in Europa, per i cori contro i napoletani cantati alle feste della Lega quand’era Nord, e poi per la faticosa rincorsa del sud quando il mito del Nord si era infranto sulla senilità di Bossi e sui misfatti di un tesoriere calabrese. Chi lo conosce bene raccontava che, almeno fino a pochi mesi fa, “Matteo” non credeva a molte delle balle che racconta sui migranti, e che ha spostato a destra il più antico partito italiano perché, cinicamente, ha capito che lo spazio per crescere e diventare egemone stava lì. Poi, come sempre, una volta che si trova una propria via al successo ci si affeziona e si finisce con l’aderire al sentiero, che poi diventa un tutt’uno con la metà. Sia come sia, a Matteo Salvini è riuscito quello che non è mai riuscito a Umberto Bossi, cioè di diventare il vero punto di riferimento nelle istituzioni della coalizione e, di fatto, perno della politica italiana. La stessa ambizione coltivata con smisuratezza, confondendo un episodio con un’epopea, da un suo omonomo che oggi è il primo dei perdenti.
Con questa sera, infatti, la storia di Matteo Renzi si calcifica definitivamente nella parabola di una meteora della sinistra italiana. La sua rapidissima ascesa scalando un partito esausto e fuori dal tempo e il suo unico successo elettorale, alle elezioni europee del 2014, diventano l’eccezione in una storia fatta di sconfitte, nella biografia politica di un perdente. Se la sconfitta politica di Berlusconi ha l’onorevolezza pietosa che si concede al vecchio campione che ha vinto cento battaglie epiche e impervie, quella di Renzi ha il sapore indigeribile del grande abbaglio, dell’equivoco che rischia di trascinare con sè un paio di generazione e un intero spazio politico. Quello dei progressisti, quello che sentiamo come il nostro. La sconfitta di un partito ridotto a camera di compagnia obbediente, fedele acritica del leader è di quelle inappellabili. Tanto netta che anche i troppi servi sciocchi elevati a politici di prima fila o a carne da macello per le battaglie più dure han dovuto tacere. L’imbarazzo era così chiaro da non riuscire a colmare con qualche scusa o accusa le poche battute consentite da un tweet. In questa debacle ci sono molti ingredienti: c’è l’arroganza di una classe dirigente improvvisata e non abbastanza preparata; c’è l’assenza di senso del limite e la non accettazione di una realtà che ha assunto contorni netti ormai da anni; c’è la mancanza di un rapporto vero, profondo con almeno qualche pezzo di società, di paese, di vita vera; c’è l’aver liquidato una storia sicuramente usurata dal tempo e impigrita nei suoi vecchi miti, ma senza aver compreso che scriverne una nuova e altrettanto importante è impresa grande, che chiede spartiti alti e interpreti degni. In questa notte buia della sinistra italiana, che accentua i tratti di difficoltà delle sinistre occidentali ma li interpreta in maniera se possibile ancora più lugubre, una cosa sola non c’è: ed è la possibilità, ad essere onesti inellettualmente, di rinfacciare un ruolo serio e importante, in questa sconfitta, ai fuoriusciti di Liberi e Uguali.
Se la sconfitta di Renzi chiude un ciclo per aprire una fase nebulosa, una traversata nel deserto che prima o poi bisognerà affrontare, la miseria di voti e di idee di Liberi e Uguali non chiude proprio niente, perché niente era mai iniziato, prima. Già, perché la sigla di Bersani e Fratoianni, di D’Alema e Civati, di Boldrini e Grasso è l’emblema di cosa non si dovrebbe mai fare fondando un partito o movimento di sinistra: e gli elettori di sinistra, pur confusi, di questo si sono accorti. In qualche mese di vita hanno ereditato i burocratismi e l’incomprensibilità linguistica dei nemici che volevano combattere. Hanno rappresentato in miniatura il problema delle sinistre occidentali ai tempi moderni, cioè la teorica vocazione a rappresentare i poveri essendo però votati solo dai ricchi. Hanno dovuto mettere in lista tanti dirigenti senza alcuna truppa, il cui obiettivo principale era rientrare in parlamento in qualche modo. Hanno affidato la leadership a un magistrato al quale una presidenza del Senato non è bastata ad apprendere i rudimenti della politica. In tutto questo, è rimasto vero che l’unico tratto distintivo netto e unificante era ed è, per loro, il dissenso da, e il disprezzo per, Renzi. Condivisi da molti milioni di italiani, sia chiaro, che hanno ovviamente scelto chi quegli stessi sentimenti poteva rivendicare con qualche coerenza in più e, pur non offrendo soluzioni, parla almeno la loro lingua arrabbiata e comprensibile. Torneranno forse in parlamento, ma anche Bersani e D’Alema sanno, da oggi, che il loro tempo è finito, e non tornerà. L’autocritica che non hanno fatto finora la facilitiamo con una sintesi: il disastro di Renzi è colpa sua e dei tanti cortigiani che si è scelto. Ma la sua ascesa è stata permessa, e quasi sostenuta, dalla loro cecità, incomprensione del presente, dalla pigrizia di chi da troppi anni comanda senza avere più chiaro perché, e per chi. In corridoio non c’è una mucca, ma una mandria di bufali e a farli entrare non sono stati sempre gli altri. Una soglia di sbarramento superata a fatica, evidentemente, non è un argine a nulla.
Chi non supera la soglia è +Europa di Emma Bonino. Quei voti serviranno solo a rendere meno esangue il gruppo parlamentare del Pd, ma non basteranno a sfatare la regola che vuole piccoli movimenti liberali ed europeisti destinati a successi ampi nella critica, e limitati poi nel pubblico. Anche per loro, come per tutti, vale una regola: difficile esistere nelle urne senza esistere nella società. Impossibile scrivere una pagina di successo nel voto, quando non si è sudato negli anni. Lo sapeva bene Marco Pannella, e lo sa benissimo oggi, ad esempio, Marco Cappato. Forse sarebbe bene non dimenticare la strada maestra di un piccolo grande partito, che nella costruzione di un vero stato di diritto può continuare ad avere la sua sacrosanta ragione di esistere.
Di fronte a questi dati politici, non può sfuggire un primo dato sociale. Al netto delle alchimie parlamentari, dei giochi di alleanza, del ruolo del presidente Mattarella, gli italiani hanno deciso di non fidarsi appieno di nessuno. Dipende dalla legge elettorale, certo. Ma un paese così spaccato, e i dati geografici ce lo confermano una volta di più, non si governa bene grazie a meccanismi che regalino maggioranze dove in realtà non ci sono. Al sud una marea di consenso grillino ci dice che dove si ha meno da perdere, e dove anche si hanno poche speranze di guadagnare, ci si affida a panacee fragili, a redditi di cittadinanza tutti da dimostrare nella loro fattibilità. Male che vada, del resto, non andrà peggio di così.
Il centrosinistra arranca, pesantemente, anche nelle sue zone di più forte radicamente, in Emilia soprattutto, ma non solo. Il passato è passato, e forse serviva vedere in faccia le proprie rughe e non solo quelle profonde di Berlusconi e dei suoi elettori. La destra si tiene senza ansie il suo nord, con l’eccezione di qualche collegio milanese. In generale, il voto progressista sta tutto annidato nei centri urbani, e neanche in tutti, asserragliato come in un fortino sempre più lontano dalla grande, popolosa, impaurita provincia italiana.
I numeri per governare dunque non li ha nessuno, o forse salteranno fuori per faticose trattavie e prese di “responsabilità”. È presto per dire se moriremo sovranisti o sopravviveremo codini.
Di sicuro però, nella storia delle nazioni, arriva un tempo in cui le persone di buona volontà devono mettere la propria vita e il proprio tempo a disposizione di tutti, anche di chi odia i migranti o teme i vaccini, perché la lotta politica non si fa solo per salvare gli amici, ma anche proteggere gli avversari dai loro errori. Arriva un tempo in cui o si fa una nazione o si muore. E quel tempo è entrato nelle nostre case: sbattendo violentemente la porta.
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